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Il cielo sopra Berlino

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Il cielo sopra Berlino

di laulilla
9 stelle

In ricordo di Bruno Ganz, l'impareggiabile Damiel di questo film, che oggi ci ha lasciati, invio la recensione che scrissi qualche anno fa, quando uscì in Italia questo bel film restaurato.

 

Nel 1987, quando uscì questo film (premio per la miglior regia al festival di Cannes di quell’anno), Berlino era ancora divisa dal muro che sarebbe crollato due anni dopo.
Wim Wenders, da poco rientrato in patria dopo gli otto anni trascorsi negli Stati Uniti, dove aveva girato quattro film (tra i quali il bellissimo 
Paris Texas) aveva in mente, ora, di raccontare la città tedesca che portava ancora ferite molto visibili dalla fine della seconda guerra mondiale, evidenti negli scheletri delle case distrutte; nei ruderi della famosa stazione; nel territorio minato intorno al muro; tra le erbacce e i detriti di Potsdamer Platz, per non parlare della presenza ossessiva e inquietante proprio di quel muro cupo, che faceva dell’intera metropoli un luogo grigio e triste. E’ ben vero, come dirà Marion (Solveig Dommartin), il personaggio femminile del film, che quel muro impediva che ci si perdesse nella città, perché o prima o poi ogni passante se lo sarebbe trovato davanti, ma certo, la sua incombente mole sembrava il simbolo di un passato opprimente col quale i conti non erano ancora stati chiusi, ciò che impediva ai berlinesi di vivere liberi e senza angoscia dopo più di quarant’anni anni dalla fine del conflitto.

 

Alcune coincidenze all’origine del film – Il problema della sceneggiatura

 

Wim Wender voleva parlare di Berlino come della città degli angeli: a questo lo induceva la riflessione sull’opera che stava leggendo (le Duineser Elegien di Rainer Maria Rilke) e sugli acquerelli di Paul Klee, il pittore che a quell’opera si era ispirato quando aveva prodotto l’ Angelus Novus e le altre raffigurazioni angeliche, in seguito studiate e commentate da Walter Benjamin, nel saggio famoso, titolato appunto Angelus Novus.
Secondo le dichiarazioni dello stesso Wim Wenders, a queste suggestioni culturali si aggiungevano quelle musicali che nascevano da una canzone in voga, del gruppo inglese The Cure che parlava di “fallen Angels”*, e anche da un’altra canzone, ascoltata per caso, che alludeva a una conversazione con gli angeli. Tutto sembrava, dunque misteriosamente indicargli il soggetto del suo nuovo film, oltre, va da sé, al famosissimo angelo dorato della pace che dalla Siegessäule vegliava sulla città.
Gli occorreva, naturalmente, uno sceneggiatore che raccogliesse e organizzasse questi spunti e lo mettesse in grado di girare il film. Si rivolse, perciò, all’amico scrittore e poeta Peter Handke, che non avendo in quel momento né la voglia, né l’energia sufficiente per accontentarlo, si limitò a mandargli la 
filastrocca molto bella che accompagna, cantilenando, l’intero procedere del film, poiché Wender la utilizzò per sottolineare alcune scene, alternandola a scene di “parlato”, talvolta improvvisato durante le riprese, grazie ai suggerimenti degli attori e di altri collaboratori. Più avanti sarà ancora Peter Handke a inviare all’amico dieci monologhi poetici, che egli avrebbe utilizzato per i dialoghi fra Damiel e Cassiel, i due angeli protagonisti (rispettivamente interpretati da un grandissimo Bruno Ganz e da Otto Sander), nonché per i lunghi monologhi amorosi di Damiel (che aveva scelto, per amore, di diventare uomo) e di Marion, la donna che egli ama e che lo ama.**
Ci troviamo perciò davanti a un film che nasce dalla poesia, sostanza stessa della sua anomala sceneggiatura, ciò che gli conferisce quel carattere di singolarissima opera filosofico-poetica, che permette a Wenders di ridurre al minimo la trama per soffermarsi invece su molte situazioni connotate dalla presenza angelica in alcuni luoghi della città: la biblioteca, frequentata dal vecchio poeta Homer che va alla continua ricerca della vera Potsdamer Platz, quella che si è sedimentata nei suoi ricordi antichi; i ruderi, teatro di posa per un film sul nazismo con Peter Falk; l’area del circo in cui lavora Marion, come trapezista, la cui bellezza indurrà Damiel ad abbandonare la propria immortalità per conoscere finalmente i colori della vita (ai suoi occhi innamorati persino il muro si riempirà di colori), nonché il suo sapore dolce e amaro, il sapore del sangue e del dolore, componente non eliminabile  dall’esistenza di ciascuno, come ci viene detto  nella stupenda e indimenticabile scena del suo risveglio sulla terra, vicino all’armatura piovuta dal cielo, che egli si affretterà a vendere. 

 

Gli angeli e gli uomini fra cielo e terra

 

Damiel e Cassiel, come  gli angeli di Rilke, non sono figure religiose, bensì creature cui è stato assegnato, per qualche oscura ragione, il compito di osservare quella zona del mondo, fin dalle sue origini nel tempo: la loro naturale innocenza li rende simili ai bambini e anche a quelle creature animali che sembrano nate per stare accanto all’uomo, per amarlo, e in qualche misura proteggerlo, senza riuscire mai a comprendere fino in fondo, tuttavia,  le ragioni del suo soffrire, della noia che lo affligge, del male di vivere che lo assedia, della sua inutile aggressività, della difficoltà a vivere nella pace. Questa condizione angelica bene si rapporta a quella dei bambini, secondo le prime parole della filastrocca di Handke:

 

Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente;
e questa pozza, il mare.

Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.

 

Nulla di strano, dunque, se solo i bambini riescono a vedere Damiel e Cassiel seduti sopra le rovine dei monumenti della città divisa o muoversi lungo le sue strade, o aggirarsi sulla metropolitana o sistemarsi accanto a loro al circo, senza stupirsene, appesi, come sono ancora con le braccia, al cielo dal quale non si sono completamente staccati. Quei bambini, crescendo, si porranno le domande sul perché, sul come, sul chi sono io, sul senso del vivere e del morire, finché, diventati adulti, la razionalità avrà la meglio su quell’ingenuo interrogarsi e sulla memoria delle origini: essi dimenticheranno gli angeli e si priveranno di un essenziale aspetto di sé. Nonostante tutto, però, il mondo degli uomini e quello degli angeli sono percorsi da una tensione continua che li porta a cercarsi e a incontrarsi più spesso di quanto credano: non ha alcun senso la frattura che, forse per effetto di un malinteso platonismo, si è prodotta in Occidente, fra spirito e materia, quella che gli angeli sopra Berlino testimoniano col loro vuoto ed eterno fluttuare, visto che l’eternità, l’infinità del tempo, è per loro pesante almeno quanto la materialità dell’esistenza lo è per gli uomini. Accettare serenamente la finitezza e l’imperfezione dell’esistere potrebbe essere il modo giusto per coglierne il senso, che sta sfuggendo agli uni e agli altri, e che può essere trovato solo nell’amore, cioè nell’esperienza dell’aprirsi all’altro da sé. Mi è sembrato questo, fondamentalmente, il significato del film, di cui diventa simbolo l’immagine di Marion, la trapezista alla ricerca continua del fragilissimo equilibrio fra il volo e la caduta, fra il cielo e la terra.

 

 

 


*il ricordo di Wenders è inesatto, perché la canzone dei Cure non fa riferimento a cadute degli angeli. E’ possibile che egli abbia involontariamente sovrapposto nella memoria echi della poesia di Rilke al testo di quella canzone. La caduta implicherebbe ovviamente altre ipotesi interpretative, sulle quali non intendo avventurarmi.



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