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Il cielo sopra Berlino

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Il cielo sopra Berlino

di EightAndHalf
7 stelle

“O Ah hear her walkin'

Walkin' barefoot cross the floor-boards

All thru this lonesome night

Ah hear her crying too.

Hot-tears come splashin on down

Leaking thru the cracks,

Down upon my face, Ah catch'em in my mouth!

Ah catch'em in my mouth!

Ah catch'em in my mouth!

Walk'n'cry Walk'n'cry-y!!!

From her to eternity!

From her to eternity!

From her to eternity!”

(From Her to Eternity, Nick Cave)

 

 

Se Alice nelle città, come Il sale della terra, sono l’incontro di Cinema e Fotografia; se Lisbon Story è l’incontro fra l’Immagine e il Suono (il Cinema e la Musica, per estensione); se Every Thing Will Be Fine è l’incontro di Cinema e Letteratura, allora Il cielo sopra Berlino è lo scontro fra la Settima Arte e l’”arte” della Storia e della Filosofia.

 

Come devo vivere. Forse non è questo il problema. Come devo pensare!”.

 

Come ogni opera di Wim Wenders, Der Himmel Uber Berlin è un’opera strabordante, fuoriesce dai suoi confini, a voler essere buoni si lascia prendere dalle circostanze. Due anni prima del crollo del muro di Berlino, la capitale tedesca è una città fantasma di corpi che camminano. Se esistono Bene e Male, o magari il Benessere e la Tristezza, allora la Tristezza proviene dall’uomo, gli è propria, il Benessere invece deve provenire da fuori, dall’ultraterreno. Come un novello Tiresia che possa passare dall’altra sponda della percezione, l’angelo Damiel capisce che la risposta più saggia sta nel mezzo, e che è di chiunque abbia una coscienza e una voce riflessiva l’insoddisfazione per la propria condizione esistenziale. Il film stesso si rivela specchio riflesso delle ambivalenti ambizioni dei personaggi protagonisti: voler essere l’una e l’altra cosa, in bianco e nero e a colori, drammatico e gaudente, a delimitare in una sincera e inoffensiva utopia manichea la possibilità di comprendere la via della felicità. Sebbene Wenders ottenga tutto questo con un utilizzo dello strumento filmico che è estetizzante, pirotecnico, gigantesco (due o tre le sequenze assolutamente indimenticabili), è proprio l’eccessiva semplificazione del caos umano, quella che erroneamente Paolo Mereghetti individua come “storia d’amore confusa, né carnale né spirituale”, a lasciare l’amaro in bocca, di fronte a cotanto dispiego di massimi sistemi. Perché la conclusione del film è evidente, e si lascia intendere fin dall’inizio: vivere nella possibilità di percepire le cose, i colori e i suoni, ciò che normalmente il Cinema e l’Arte registrano e che “da fuori” apparirebbero come sembianze inerti deumanizzate e impoverite, è il modo di vivere più completo e “infinito”, eterno.

 

 

Solo che Wenders sembra voler eccessivamente dimostrare, prolungando i dialoghi e le parole, sforando nella logorrea della a tratti tautologica ovvietà, azzardando risposte e girando attorno ad altro (la tristezza insensata della gente), limitando e definendo con contorni troppo evidenti la dilagante confusione della caducità umana, o dell’eternità divina. Soprassedendo su certi aspetti, ne estrae fuori altri, più o meno ad hoc; risulta geniale in svariate sequenze, e un po’ infelice nella scelta di certi personaggi (Peter Falk come angelo caduto fa fischiare le orecchie). Getta nel calderone filmati d’epoca, concerti dal vivo (splendidi, magnetici, ammalianti), il muro di Berlino colorato di migliaia di tonalità, per arrivare a una singola conclusione, assoluta ma confortante, con espressioni come “ciò che era sarà” o “l’immortalità della beatitudine”.

 

Resta però il fatto che la confezione è una delle migliori che potesse produrre Wenders. Uno scavo così imperativo nei poteri immagnifici dell’immagine è raro, e dimostra un amore per la bellezza che di rado si può scorgere, e per cui è necessario un entusiasmo che il regista tedesco dimostra anche ora a quasi trent’anni da questo suo comunque fondamentale passo in avanti nella Settima Arte.

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