Regia di Rob Marshall vedi scheda film
Nata nel 1926 come pièce teatrale, un attacco ironico e invelenito allo strapotere della carta stampata, la storia di Roxie e Velma, le ballerine-assassine che in carcere si trasformano in personaggi da prima pagina, ha vita lunghissima. Due film (del ’27 e quello del ’42 di William Wellman con Ginger Rogers – ripresa pari pari nell’interpretazione di Renée Zellweger), il musical del ’75 di Bob Fosse, l’allestimento del ’96 che rispettava la messa in scena originaria di Fosse. Sempre attuale, perché la frenesia scandalistica dei media è sempre più vorace, perché le stelle nascono e crollano sempre più velocemente, perché il cinismo e la voglia di notorietà fanno sempre più parte della vita normale. La storia sta a mezza strada tra un Eva contro Eva carcerario (con la “newcomer” Roxie che scalza Velma dalle prime pagine e che viene a sua volta messa in disparte appena una nuova clamorosa uxoricida si affida alle cure dell’avvocato Billy Flynn) e un Prima pagina al femminile, con iniezioni di misoginia incattivita e compassionevole alla Anita Loos (che negli stessi anni raccontò le avventure di Lorelei Lee in Gli uomini preferiscono le bionde e che sapeva quanto potessero essere carogne le sue simili). L’immaginario è quello sfavillante del musical, ma un musical in cui i lustrini si sporcano nella polvere e nel rossetto sbavato della strada, in cui la perfezione dei numeri non tenta di spacciarsi per un’analoga armonia della vita. Perciò, non Fred Astaire e Ginger Rogers né Mgm (i due modelli di musical che tutti abbiamo più impressi nella memoria), ma piuttosto il musical che dai tardi anni ’50 in avanti ha messo in scena portoricani e hippies, aspiranti ballerini e varietà di terz’ordine. Grande antecedente, Busby Berkeley con le sue sguaiate “gold diggers”, che Roxie e Velma riproducono piuttosto fedelmente. Rob Marshall (all’esordio dietro la macchina da presa, ma con una bella carriera teatrale alle spalle) allestisce numeri fastosi e crudeli e li taglia di montaggio senza pietà, tra le gambe delle ballerine, su un volto, un braccio, macchina da presa spesso obliqua, che conferisce a tutto un’angoscia deformante. Qualcuno ha già fatto paragoni con Moulin Rouge (probabilmente a causa dell’assenza di campi totali nei numeri e del loro montaggio ininterrotto), mentre l’unico raffronto giustificato, addirittura doveroso, andrebbe fatto con Cabaret, il film con il quale nel 1972 esplose anche sullo schermo il talento innovativo di Bob Fosse. Anche là, nella Germania agli albori del nazismo, le canzoni di Sally Bowles e del maestro di cerimonie erano continuamente “tagliate” da immagini di strada, picchiatori nazisti, bandiere uncinate, volti “grosziani”, e comunque non erano quasi mai riprese secondo una prospettiva totale. Se non fosse morto prematuramente, probabilmente Bob Fosse avrebbe percorso nel cinema una strada che andava in direzione di Chicago, che non sembra tradire per nulla il suo universo nervoso e “jazzistico”, il nero che sottendeva comunque le sue produzioni, la voglia di rispecchiare nella coreografia le storture del mondo esterno. Qui, l’assassina anonima Roxie Hart vede tutta la sua storia, il carcere che la circonda, il processo, come se fossero numeri musicali: ci sono le sei assassine del fantastico Cell Block Tango, l’avvocato che manovra tutti come marionette appese ai fili, il marito incolore Mr. Cellophane, la corpulenta carceriera in lamé (una grande Queen Latifah in When You’re Good to Mama), ancora l’avvocato che scandisce l’arringa come un martellante e faticoso tip tap, tutti momenti nei quali la struttura coreografica e visiva si salda con la carica emotiva della narrazione e con la psicologia del personaggio interprete. Su tutti, naturalmente, le molte occasioni delle due protagoniste, una Renée Zellweger perfezionista e perfetta (pare davvero la Ginger Rogers un po’ buzzurra e disarmata dei film non musicali) e una Catherine Zeta-Jones che, ballando, cantando e tentando disperatamente di risalire ai favori della cronaca, riscatta tanti personaggi mediocri; non sarà Liza Minnelli, non ne ha la voce né il carisma, ma ha un impatto corporeo sbrigativo e un po’ sciatto che ogni tanto la richiama. Qualche volta è l’imperfezione a fare la differenza, e Chicago ci dimostra cosa può essere il musical oggi, come il ballo e il canto possono assorbire la narrazione senza soluzione di continuità, come il fasto può raccontarci la miseria.
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