Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
E se il vero obiettivo del cinema di Muccino sia la rappresentazione della mediocrità? Se in realtà la superficie oltre cui parrebbe non incidere fosse il suo strumento per immergersi nel dramma borghese dell’assenza della borghesia? O se semplicemente il suo fosse un cinema del bluff, in cui la perizia e la rapidità con cui sta addosso ai suoi personaggi dissimulano il vuoto, o per meglio dire la vacuità del suo discorso amoroso sul rigurgito edonistico dell’Italia prima della crisi? Fenomeno effimero, bruciato anziché no, Gabriele Muccino ha ballato qualche stagione, riuscendo a captare l’epidermico malcontento di una società che ha deciso di imporre l’amore al centro in una sorta di frivolo e futile romanticismo di ritorno nonché di adolescenzialismo pressoché infinito. Tutti ovviamente insoddisfatti, i suoi Ristuccia si distinguono in due sentimenti: gli adulti rivangano il passato e cercano nel sogno riposto pigramente nel cassetto una speranza di realizzazione (Carlo, uno splendido Bentivoglio, decide di terminare il suo romanzo giovanile e fare il remake di un’antica storia d’amore con un’ottima Bellucci; Giulia, una Morante istericamente egregia, torna a recitare in teatro dopo vent’anni e s’innamora del regista Lavia); i ragazzi, più pratici, ambiscono al successo facile (pur di lavorare in televisione Valentina è disposta ad andare a letto con chiunque: folgorante Romanoff) o all’accettazione sociale (innamoratosi di una mezza no-global, Paolo organizza un party pieno di erba: genuino Muccino). Ne viene fuori il ritratto di una famiglia sfasciata che si fa specchio dell’Italia individualista confluita nel partito simil berlusconiano del rampante collega di Carlo, dominata dallo squallore ora fragile ora sornione degli avidi (è un film sull’avidità di voler essere qualcosa che mai si potrà essere: chi riesce davvero nell’intento è quella moralmente più deprecabile). Probabilmente Muccino non sa scavare fino in fondo nelle ferite di questi corpi apparentemente privi di trauma e la seconda parte, immolata al recupero della serenità familiare, contiene la certezza che nulla sarà più come prima ma l’importante è che tutto torni come prima. Coerente propaggine de L’ultimo bacio, è un film sulla polvere che riaffiora da sotto il tappeto del salotto per tornare infine naturalmente dove si trovava, con rassicurante cinismo.
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