Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
Ma tu come mi vedi? E' questa l'ossessione di Paolo, il giovane protagonista di "Ricordati di me", un bravo e convincente Silvio Muccino, alle prese con un personaggio che è il naturale evolversi del protagonista di "Come te nessuno mai" opera seconda di Gabriele Muccino. Paolo non si piace, ha mille insicurezze, non ha grandi amicizie, si guarda spesso allo specchio per convincersi che vale di più di quello che appare, è perdutamente innamorato di una ragazza, Ilaria, che però lo considera davvero poco (mi comporto come un coglione perché mi tratti come un coglione, le dice Paolo non appena ha avuto il coraggio di manifestarle i suoi sentimenti). Nemmeno una festa a base di marijuana (l'unico modo per attirare gente, per essere al centro dell'attenzione è omologarsi, adattarsi al gusto corrente, seguire il mondo ciecamente, quando la moda cambia, tutto cambia) riesce a renderlo più sicuro, anzi se possibile lo demoralizza ancora di più. L'apparire, il mostrarsi, il valere qualcosa: sono queste le principali preoccupazioni dei protagonisti del film: Carlo (un bravissimo Bentivoglio, il migliore attore italiano in circolazione), si sente castrato dalla moglie (sei un marito felice gli chiede Alessia e lui risponde sono un marito), ha un lavoro insoddisfacente e un romanzo che vorrebbe finire da tempo dal titolo emblematico (Quello che resta). L'incontro con una vecchia compagna di scuola, nonché ex fidanzata, Alessia (una sensibile e misurata Monica Bellucci, alla sua prova migliore), una giornata trascorsa in una villa al mare (portami al mare, fammi sognare cantava Patty Pravo nella sua splendida "Dimmi che non vuoi morire") risvegliano la sua passione e il suo desiderio di staccare (la cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me) e ricominciare con lei tutto da capo (tuo padre è scoppiato, dice, durante un furibondo litigio con la moglie, al figlio Paolo). Giulia (una strepitosa, nonché bellissima, Laura Morante) è una moglie insoddisfatta, un'insegnante svogliata, una donna piena di paure e insicurezze, un'attrice mancata. Un'amica le darà la possibilità di recitare in uno spettacolo e lei dopo molti dubbi, ansie, ripensamenti e crisi troverà la forza per buttarsi e per cercare di dimostrare di valere qualcosa. Valentina (un'efficace e funzionale Nicoletta Romanoff) è invece assillata dal desiderio di diventare qualcuno nel mondo della televisione (una velina, una ballerina, una cretina in poche parole) e per fare questo è disposta a tutto (le brave ragazze vanno in paradiso, io voglio arrivare dappertutto!): non vuole però una fama effimera (non voglio durare una stagione come te, dice a Taricone), ma un successo continuo e crescente. Da qui feste, provini, incontri e telefonate con chi conta, totale mancanza di scrupoli e di morale (vedere come pianta in asso Taricone, dopo che ha conosciuto Silvestrin, conduttore del programma "Alì babà", l'occasione di una vita). Ed infine c'è Alessia, madre di due figli che adora, sposata con un uomo che l'ha più volte tradita (che coraggio!! dove trova qualcuna di meglio della Bellucci), l'unico personaggio che alla fine si rivelerà davvero coerente. La crisi della famiglia italiana secondo Muccino. Il bravo regista romano ha un innegabile talento nel raccontare e nel descrivere situazioni nelle quali ognuno si può facilmente riconoscere, ha una notevole padronanza del mezzo così da riuscire a catturare l'attenzione dello spettatore con un ritmo assai veloce e movimenti di macchina avvolgenti ed efficaci, è uno strepitoso direttore d'attori (mai visto un cast così perfetto, affiatato e funzionale in un film italiano), sa inserire le canzoni giuste al momento giusto per colpire, a volte anche basso, lo spettatore. Certo il ritratto che ne esce è poco consolante, spesso deprimente, tremendamente realistico ma anche piuttosto risaputo. Muccino lavora su tipi, soggetti, situazioni ormai riconoscibilissimi e più volte affrontati dal cinema, imbastisce un discorso da talk show per suscitare dibattiti e discussioni ("tu cosa pensi" chiede al marito Stefania Sandrelli, a conclusione dello spettacolo allestito da Gabriele Lavia), rimane molto sulla superficie delle cose (la vera profondità sta in superficie dice a Giulia il regista Gabriele Lavia, citando Hobbes), fa un esagerato e a volte inutile ricorso a scene madri (troppe urla, litigi, conflitti, anche quando non ce ne sarebbe bisogno, vedi, ad esempio, il fastidioso e sopra le righe sfogo di Silvestrin), risolve in modo facile e semplistico il dramma familiare (è "il caso" sotto forma di un grave incidente a Carlo, che aggiusta tutto, riportando la situazione alla normalità così che la famiglia Ristuccia a Natale si ritrova felice e contenta, come se nulla fosse accaduto) per poi gettare in modo molto furbo e calcolato ancora ombre, dubbi e inquietudini sui suoi protagonisti (la telefonata finale di Carlo ad Alessia apre molte porte e molte possibilità, lo sguardo assente, quasi spento ed il sorriso finale assai forzato e poco naturale di Carlo seminano incertezze). "Quello che resta" è perciò il solito vuoto, una tristezza e un'insoddisfazione generali, solo temporaneamente dimenticate o accantonate, che però alla prima occasione (un casuale incontro al supermercato) tornano prepotentemente a farsi sentire. I protagonisti vogliono apparire, dimostrare quello che sono o valgono, ma paradossalmente finiscono per nascondere i loro reali sentimenti e le vere sensazioni, condannati a vivere nell'ipocrisia e dietro facciate sorridenti che in realtà celano un'amarezza e una delusione profonde e dolorose, nella pura e cieca illusione che tutto prima o poi si sistemi. "La gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, si perde in congetture ed in paure continuamente e poi per niente: tu che sei diverso, almeno tu nell'universo non cambierai dimmi che per sempre sarai sincero e che mi amerai davvero di più di più": lo sguardo finale di Carlo ci dice che lui non è diverso e che tutto inevitabilmente tornerà come prima. Un film che fa male: potrà non piacere, ma Muccino ha idee chiare, sa cosa dire e soprattutto sa come dirlo: tanto di cappello a chi nel cinema italiano riesce ancora a coniugare con forza e coerenza rappresentazione e riflessione.
Voto: 7+
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