Quando la sua ragazza rimane uccisa durante una sparatoria in un fast-food, Joe non ha il coraggio di rivelare a Ben e Jo-Jo, suoi futuri suoceri che tra lui e la loro figlia era ormai tutto finito. Joe, sempre più indeciso rimane ospite dei due. L’incontro con una giovane ragazza del luogo non fa che complicare le cose.
Variamente accolto, polpettone lacrimoso-sentimentale per alcuni (La Repubblica), il più bel film del 2003 per altri (Sentieri Selvaggi), Moonlight Mile ne ha di cose da mostrare, e grazie al cielo le mostra. Tanto per cominciare: il corteo funebre con le quattro limousine che attraversano la cittadina mentre tutto attorno la vita scorre come se niente fosse accaduto. Ecco che senza volerlo, già nelle prime immagini del film è celato il senso del film, proprio nel <> visto che Moonlight mile mostra due percorsi paralleli e contundenti tra loro, destinati a scontrarsi, a farsi male per proseguire poi ognuno per la sua strada. Il primo tracciato è quello luttuoso che lacera la mente coi ricordi, con i se e con i ma. Il secondo è quello che ricompone, anche con violenza, gli strappi che il primo si è lasciato dietro. Quello di Silberling (Casper e City of Angel) sembra proprio un cinema con al centro chi c’era una volta e ora non c’è più, perché qualcosa (e qualcuno) ha fatto in modo che così fosse. Chi non c’è più vive ora in altri spazi, e ad intermittenza si riaffaccia sugli spazi di prima. L’unione, o meglio, il riversamento di un universo in un altro scandisce il film, perché non c’è verso che Joe si addormenti senza che Diana, la sua fidanzata che era di qua, non venga a visitarlo dal di là. Ma la vita preme per scacciare la morte ed allora ecco le amiche della defunta Diana che a mo’ di vampire saccheggiano il suo armadio alla ricerca di abiti da riciclare in un nuovo look che certo che sa di morte, ma che è altrettanto certo, aiuta JoJo e Ben ad affrontare il lutto che rischia di trascinarli a fondo. Tutti piccoli segnali, i sogni, il saccheggio, gli affari da concludere sotto forma di una speculazione edilizia, che la vita mette a disposizione di chi vuole ricominciare. Quando la vita preme, chi lo sa quello che può accadere? Può darsi che mamma JoJo riprenda a bere e a fumare, ma anche a scrivere, e che Ben, che sembrava il migliore, quello più forte, mostri qualche incertezza. Ma può anche accadere che in piena udienza, con l’avvocato di Ben e JoJo che incalza perché Joe racconti ciò che lo legava nel profondo a Diana così da convincere il giudice a gasare il responsabile della sua morte, Joe esca dalla parte che ha interpretato sino a quel momento e sparigli il gioco che lo stava soffocando, raccontando le cose come stavano, che l’amore era finito e che oramai Diana è morta e tanto basta. Le traiettorie opposte, i sentimenti contrastanti, i paradossi, Moonlight Mile mette tutto sullo stesso piano: chi è morto vorrebbe essere vivo, chi è vivo vorrebbe essere morto, chi è lontano dallo zoccolo duro del dolore pensa di saperne di più di chi lo vive dal di dentro. Nei percorsi tortuosi che il lutto compie per sciogliersi, e Silberling che ha realmente vissuto la perdita di una fidanzata, ammazzata da un folle in cerca di un regolamento di conti in un fast-food, si affida ad immagini fatte di primi piani e di sguardi pieni di stupore per quello che accade, e dialoghi che sanno di amore e paura, dialoghi affilati, in continuo movimento nel terzetto affiatatissimo Sarandon-Hoffman-Gyllenhall (vera rivelazione giovane del film), fino al compimento necessario della storia, dove ognuno rivolge uno sguardo verso il soffitto-cielo, JoJo e Ben, Joe ed Ellen, sguardo accompagnato dall’ennesimo gesto che serve a ricordare e a cancellare al tempo stesso Diana, col bigliettino con su scritto cielo (in inglese e in italiano, perché Diana lo studiava l’italiano), a sancire un film leggero come una nuvola e pesante come un macigno perché parla di come si diventa leggeri dopo essere stati schiacciati per bene. Forse val la pena di dare un’occhiata a cosa combina questo curioso regista con i piedi per terra e con lo sguardo rivolto altrove.
Sergio Gualandi
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