Regia di Andrzej Munk vedi scheda film
La realtà quotidiana dei campi di sterminio vista dall’interno (dell’anima di una donna): mentre, tutto intorno, la macchina dell’orrore continua a macinare morte, seguendo i meccanismi, ben avviati e ormai diventati autonomi, della guerra e dell’odio, tra una sorvegliante tedesca (Liza) ed una prigioniera ebrea (Marta) si instaura un rapporto perverso ed esclusivo, basato sul possesso, sul ricatto sentimentale, sull’inganno. Da entrambe le parti, ad essere in gioco è la dignità individuale, che, nella prima, si identifica con l’orgoglio del carceriere, con il suo desiderio di dominare l’esistenza altrui e, nella seconda, con la sopravvivenza della propria femminilità, in un inferno in cui si uccidono i neonati ed i sessi vivono rigorosamente divisi. Liza sceglie Marta come assistente particolare, accentuando così il suo potere ed il suo controllo su di lei, e l’altra, dal canto suo, approfitta della propria situazione privilegiata per potersi incontrare con il suo uomo Tadeusz, e, forse, per salvare la vita ad un bambino. I suoi “sotterfugi” sono la testimonianza di come l’umanità sia un impulso incontenibile, che si insinua in ogni possibile spiraglio pur di farsi strada; è un bene che riesce a farsi piccolo, e, se occorre, a strisciare a livello del terreno, sotto le macerie della devastazione, o sotto i macigni dell’oppressione, per continuare a diffondere il proprio fertile messaggio di vita e libertà. È quella la forza che consente, a due innamorati, di contrabbandare un mazzo di fiori tra le due metà del lager, e di rubare, in mezzo ad uno schieramento, un attimo di affettuosa vicinanza. Nel magazzino degli oggetti sequestrati si ode, improvvisamente, un vagito; e sotto il fumo dell’ennesimo treno in arrivo ad Auschwitz, due sguardi si incontrano, ed una collana passa clandestinamente di mano. La debolezza e la distrazione degli aguzzini, e l’imperfezione dei loro metodi sono la grazia che il cielo concede alle loro vittime anche nelle situazioni estreme. La vanità di Liza è, per Marta, fonte di inatteso sollievo e le offre l’occasione per aggirare le regole; così la passione della cagna di una guardia per il formaggio rende possibile compiere su di essa una mortale vendetta. La carne è sempre tale, anche sotto le uniformi militari o i vestiti a righe: c’è una continuità dell’essere, che porta Liza, la passeggera della nave a ritrovarsi, improvvisamente, nei panni smessi tanto tempo fa, nel momento in cui i suoi occhi incrociano, per caso, quelli di un viso tristemente familiare. Il tempo e il ritorno della pace non sono bastati a cambiarla dentro: nel suo racconto di quegli eventi tanto dolorosi non si scorge, infatti, alcun segno di pentimento, ma solo un tentativo di giustificazione: morale, nei confronti del mondo esterno (rappresentato dal marito) e psicologica, diretta, invece, alla sua coscienza. Questo film è un’indagine sulla profonda essenza della storia, che non si trova nelle strategie politiche, nelle logiche di combattimento e nei desideri di conquista, bensì nel fragile tessuto di noi uomini, che partecipiamo sempre in prima persona, e ognuno per suo conto, al travagliato destino del mondo.
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