Regia di Rashid Masharawi vedi scheda film
I proiezionisti, nei film, sono spesso figure epiche e metaforiche. Il protagonista di questo film, poi, è un palestinese sulla quarantina che si sposta ogni giorno attraverso i Territori occupati, effettuando proiezioni per le scuole. Per lui il cinema è una passione divorante, che rischia di compromettere la sua vita familiare, oltre a metterlo spesso drammaticamente a confronto con le autorità israeliane. La parte migliore del film è proprio l’esibizione dell’oppressione quotidiana, le mille assurde vessazioni a cui ogni gesto è soggetto, lo stato di guerra permanente che segna anche il privato. Ma poi lo stile paradocumentario del film, che è di un naturalismo piuttosto pesante, vorebbe trovare coronamento nell’apologo, nel simbolo. E anche qui, come nel più furbo “Intervento divino” di Suleiman, la metafora pare una scorciatoia per non scendere nelle ambiguità del reale. Particolarmente sgradevole il doppiaggio: non solo perché il digitale doppiato dà sempre un effetto di irrealtà, ma soprattutto perché in film come questo (o ancora più vistosamente “Kedma” di Gitai) si perde l’impasto e il conflitto linguistico, visto che arabi ed ebrei parlano tutti lo stesso italiano standard.
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