Regia di Roberto Faenza vedi scheda film
Quella di Sabina Spielrein, la prima paziente trattata con metodo freudiano dal giovane Carl Gustav Jung, che s’innamorò, ricambiata, del suo analista, ne divenne l’amante, ne fu poi abbandonata per evitare lo scandalo e, tornata nella nativa Russia, lavorò in un asilo applicando metodi pedagogici rivoluzionari, è una storia vera. Una di quelle “storie non ufficiali” che col trascorrere dei decenni reclamano la vita (Sabina, dopo che il suo asilo fu chiuso da Stalin, fu uccisa dai nazisti nel 1942). Peccato che in “Prendimi l’anima”, il film che ne ha tratto Roberto Faenza dopo anni di ricerche, sia proprio la vita a mancare. Costellato di carrelli roteanti, flashback (la storia della Spielrein è raccontata attraverso le indagini di una giovane ricercatrice), immagini flou, libere associazioni (il cerbiatto/la donna, la muta dei cani/i nazisti), “Prendimi l’anima” appartiene alla categoria del cinema vecchio che spaccia il kitsch per arte e cultura. Non è un problema di intenti e di contenuti (entrambi onorabilissimi), ma di linguaggio cinematografico, dove la supposta eleganza della ricostruzione, l’ansito dei protagonisti, lo spudorato movimento di macchina enfatizzano sullo schermo i sentimenti dei personaggi e nostri. Immersi nei cliché, sentiamo quello che vediamo, senza uno sprazzo di problematica originalità. E questo non è esattamente un bel servizio nei confronti della tormentata eccentricità dei personaggi raccontati. Molto “arty”, “Prendimi l’anima” è l’ennesima dimostrazione dei danni fatti al nostro immaginario dalla fiction televisiva.
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