Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Nel quartiere Five Points di New York vige la legge del più forte e chi è più armato in termini di sete di sangue e coltelli domina incontrastato. In questo contesto, sullo sfondo del massacro della guerra civile, torna per vendicarsi il figlio di un capo banda ucciso anni prima. Un'opera sopra le righe, esageratissima, che in alcuni frangenti sfiora il fantasy (soprattutto nella costruzione scenografica) e che si prefigge d'incarnare lo spirito trasudante violenza che ha fatto da fondamenta all'America di oggi. È una lotta continua tra invasori ed usurpatori che si sentono legittimati a comandare detronizzando (e trucidando) gli avversari (di etnia, di religione, di classe sociale, probabilmente anche di condominio...), fra irlandesi, afroamericani, gente arrivata l'altro ieri che si percepisce "nativa" a causa del proprio retaggio familiare, protestanti e cattolici. È tutto scolpito in quel substrato di violenza tarantiniana (cioé irrealistica e tragicomica) a cui Scorsese aveva parzialmente aderito negli anni '90 e ricoperto da un'aura di epicità talvolta eccessiva, ma più spesso fomentante (la trasformazione temporale della città con gli U2 in sottofondo fa la sua porca figura). E bisogna anche dire che, per quanto la rappresentazione delle radici degli USA come intrise di sangue sia vecchia come il cucco (e sinceramente vista anche in forme più eleganti...), il film centra il suo obiettivo: il rapporto fra i due contendenti in lotta è un turbolento passaggio generazionale fra un padre conservatore (che ai suoi tempi credeva di essere un grande eroe) ed un figlio plasmato a sua immagine e somiglianza, che però si rifiuta di abbassare la testa ai soprusi del genitore, con in secondo piano una carneficina che ha posto le basi per una società nuova (l'abolizione della schiavitù, l'industrializzazione che prende il sopravvento sui contesti rurali), senza per questo rinunciare ad una (in)sana dose di violenza (l'ultima frase di Cutting nell'infuriare della strage è "Grazie a Dio muoio da vero americano"). L'unico vero problema è l'inserimento di Cameron Diaz e di Henry Thomas: oltre a non aggiungere nulla all'economia del racconto, sono personaggi approssimativi (la prima è solo la quota gnocca, il secondo l'amico sfigato da film di supereroi) che si mangiano una ventina di minuti buona del minutaggio. DiCaprio entra nella fase della sua carriera in cui viene torturato e riempito di cazzotti, Liam Neeson compare poco ma è incisivo e Daniel Day-Lewis giganteggia su tutti con un carisma da pelle d'oca. È imperfetto, probabilmente inessenziale, ma si tratta anche, forse, di uno degli ultimi film di Scorsese in cui ho avvertito davvero l'energia e la freschezza dei primi tempi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta