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Perdizione

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Perdizione

di alan smithee
9 stelle

locandina

Perdizione (1988): locandina

Terra, anzi fango, pioggia fitta, cani randagi che scorrazzano nella notte, rischiarati dalla luce fredda e impermeabile dei neon che sovrastano il Titanik Bar; città in cui palazzoni grigi lasciano spazio a piazzali desolati dove l'acqua della pioggia tracima in laghi e pozze gelate; Karrer fissa l'orizzonte infinito, dove dal nulla spunta una teleferica che attraversa l'orizzonte percorribile con la vista per proseguire chissà dove. E' un uomo depresso, innamorato non corrisposto, disoccupato, che vive di espedienti e di contrabbando, impossibilitato a togliersi dalla testa la visione della donna che ama, una cantante del Titanik con ambizioni più grandi; una donna che vuole andare lontano da quella desolazione, da quella pioggia opprimente ed infinita che non cessa mai.

L'ungherese Bela Tarr è davvero, assieme al filippino Lav Diaz, il regista che più di ogni altro sa creare ed impostare un'idea, uno stile di cinema che rimangono impressi nella memoria come basi definitive che vanno al di là del percorso narrativo dell'opera. Costruendo attorno anche solo ad una bozza narrativa minima, i due cineasti riescono ognuno col proprio stile, ognuno con le proprie ricorrenti modalità e fissazioni (Bela Tarr insegue traiettorie e torna sui suoi passi con la mobilità seducente di una ripresa in costante lento movimento laddove Diaz predilige la fissità di uno sguardo che tutto include e contempla) traducendola in immagini, rigorosamente in bianco e nero, che condensano al loro interno momenti di cinema che danno i brividi per bellezza e profondità, capacità di catturare aspetti e molteplicità di situazioni.

“Ho capito una cosa: in te si apre un passaggio unico ed abbagliante, che porta in un mondo per me irraggiungibile. Nessun altro conosce questo passaggio. E alla fine di questo passaggio ci sei tu e non altri. In te c'è qualcosa che non oso nemmeno nominare, un segreto più profondo e spietato di quanto io possa mai comprendere. Io sono lontano da questo mondo, posso solo desiderarlo, perché è coperto da una luce e da un calore che non riesco a sopportare. Sono finito se ti perdo. Non so nulla di questo mondo indescrivibile, né perché esso ti appartenga. Questo mondo per me sei tu. Sei tutta tu.”

Sono le parole ad effetto certo, ma in fondo sincere di un uomo disperato che non è mai stato lucido né leale come nel frangente in cui si rende conto che sta perdendo l'unica cosa buona che gli resta al mondo.

L'ultima occasione per afferrare al volo quel carrello sempre in movimento di una teleferica che gli passa accanto (una sequenza che è insieme una lezione di cinema ed uno dei momenti più magici, emozionanti e folgoranti del cinema del grande maestro ungherese), quasi lo sfiora, tuttavia escludendolo, e che fino ad ora gli ha permesso solo di veder scorrere la vita da spettatore inerte e non partecipe, condannato a sopravvivere in un limbo di squallore, tra latrati di cani e il suono triste, lamentoso e in fondo seducente di una fisarmonica del Titanik Bar.

 

 

 

 

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