Regia di Béla Tarr vedi scheda film
"L'inconsolabilità delle cose". Dopo i primi estenuanti tre quarti d'ora riusciamo a penetrare Perdizione, il film della svolta e in questo senso una delle prime analisi del vuoto in bianco e nero del regista ungherese, che contenuto e riflessivo realizza il suo primo inno alla ridondanza. Le cose, in questo senso, si sono svuotate, si sono fatte espressione eloquente ma muta della disperazione del mondo, appiattite, bagnate, fradicie di stoltezza, sono riprese tramite le scivolose e magnifiche carrellate di Tarr, già ben sperimentate in Almanacco d'autunno e in grado di comunicare immobilità e freddezza. Se l'essere umano non è più nelle condizioni di cercare fuori ciò che può soddisfarlo, in un cosmo che è semplice insieme di cose e non ha nient'altro (il pessimismo di Tarr è prettamente materialista, e accetta solo il pressare mutevole ma costante della Morte incarnata nel vuoto), l'unico appiglio per lui risulta essere l'altro essere umano, l'unica catarsi si può forse ottenere nella ricerca di solidarietà. E ancora, l'uomo si pone falsi e nuovi motori, obbiettivi di vita che dipendono strettamente dal legame con altre persone, obbiettivi che sono altre persone, come il protagonista che ha interesse a conquistare la donna di cui è innamorato, ma la donna, sposata, ha preferito la famiglia seppur continuando a ricambiarlo. Incapace il protagonista quanto la donna di avvicinarsi realmente, né con gelidi e acerbi convegni carnali né con sguardi svuotati, l'uno all'altra, lo scambio umano si riduce ai momenti in cui attraverso il dialogo si riesce ad esprimere il proprio pensiero e si cerca di scuotere la propria condizione. In questo senso, anche se esteticamente Perdizione è decisamente proprio del nuovo Tarr, gli aspetti prettamente umani sono quelli del primo Tarr, del Tarr de L'outsider e di Almanacco d'autunno, perché i personaggi continuano ancora, attraverso i dialoghi, di imporsi, e il dialogo, diversamente dai futuri capolavori, rimane fondamentale, sebbene limitato a poche sequenze. In questo modo la filmografia tarriana batte un percorso graduale, che rende Perdizione una fragile opera di transizione, ancora strettamente legata al passato ma molto protesa verso il futuro.
I due motori che muovono l'uomo, l'Altro e l'Obbiettivo delle loro azioni, si alternano nel film di Tarr, che dal canto suo riesce ad analizzarli nelle loro forme, dimostrando un'introspezione psicologica che in Satantango o in Il cavallo di Torino sarà assente perché non necessaria, perché allora l'uomo sarà immerso nel nulla della natura. Come ancora in preda a un'ingenuità speranzosa tutta del suo primo periodo, Tarr celebra il funerale del mondo fisico e tenta di salvare parte del mondo spirituale, ma anch'esso, negli sguardi perduti di tutti gli individui analizzati, sembra destinato a morire. Particolarmente efficace, in questo senso, la splendida carrellata sulle folle di quelli che sembrano morti viventi, che fissano ognuno un punto diverso come a indicare i loro diversi obbiettivi, le loro diverse mete, e al contempo a dimostrare come nessuno riesca a rispettarle e riesca a raggiungerle. La conseguenza più diretta è l'immobilità, il conformarsi allo sfondo grigio. Questo succede alla maggior parte dei personaggi che sullo sfondo, nel bar Titanik, bevono, tracannano e si divertono. Il divertimento non ha niente di diverso dal nulla, ormai, perché il divertimento è mancata riflessione sulla vita, che la rende arida ma che dimostra quantomeno, per chi riflette, il fatto di essere ancora vivi. E mentre gli obbiettivi vanno sgretolandosi, l'essere umano si trasforma (come il protagonista alla fine) e diventa la freddezza delle funivie, diventa il riflesso di una bottiglia di alcool, diventa un muro bagnato. Il processo di apocalittica simbiosi ha qui ufficialmente inizio. Il resto sarà solo una ripida discesa verso Il cavallo di Torino.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta