Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Karrer (Miklos B.Szekely) quando non è intento a fissare dalla finestra della sua abitazione i carrelli sospesi sulla teleferica che trasportano il carbone, passa il suo tempo al bar Titanik. Qui lavora la cantante (Vali Kerekes) di cui è innamorato, l'unico spiraglio di luce in mezzo a tanto buio. Vive di espedienti Karrer, aiutandosi anche con affari poco leciti. Ne ha uno per le mani commissionatogli dall'amico e padrone del Titanik Willarsky (Gyula Pauer) e lui propone a Sebastien (Gyorgy Cserhalmi), il marito della cantante, di entrare nell'affare contando sulla sua necessità di reperire denaro per coprire gli ingenti debiti che lo affliggono. Il suo scopo è quello di allontanarlo per restare da solo con la donna amata. Lei cose però non vanno come lui vorrebbe, come sempre, e non gli resta che la più profonda solitudine come miglior compagna di una vita.
"Karhozat" dell'autore ungherese Bela Tarr è un opera dal fascino conturbante, ipnotica direi, con un bianco e nero “acquitrinoso” che non allenta un attimo la presa. I lunghi piani sequenza e la lentezza con cui scorrono le immagini offrono un impatto visivo di originale riconoscibilità stilistica, frutto di un modo del tutto particolare di posizionare la macchina da presa che sembra volersi nascondere, muoversi furtiva tra l’(in)azione di Karrer, lo scroscio di acqua piovana e gli intertizi delle pareti per catturare gli ultimi vagiti di un mondo in stato di sfratto. Come se stesse rubando momenti di ordinario abbandono piuttosto che preoccuparsi di descriverne l'essenza, guardando di sottecchi la vita immobile di un acquario a cielo aperto. Un film sull'attesa, che il peggio accada o che intervenga qualcosa di risolutivo fa lo stesso, tanto la pioggia che scende a fiumi travolgerà tutto e tutti, inevitabilmente, bagnando ogni lembo di esistenza di questo mondo martoriato dall'egoismo e dal disincanto, non risparmiando proprio nessuno, neanche i "naufraghi" assiepati in quell'ultima oasi di perdizione che è il Titanik (nome banalmente emblematico, diciamolo pure). La trama "finto noir" è solo un pretesto per dare un minimo di senso all'insensata rappresentazione di una soluzione finale, per immergerci in un universo molto prossimo alla fine dei suoi giorni, dove un umanità sospesa in una condizione purgatoriale è in attesa del giudizio risolutivo e intanto che aspetta si concede gli ultimi scampoli di gratuità serenità lasciandosi trasportare dal "vortice colorato del divertimento", come dice la donna che lavora al Titanik (Hedy Tèmessy)."Il ballo ! L'insieme d'armonia di mani, gambe, fianchi e spalle che parlano senza parole. Movimenti. Sguardi. Sollevano chi balla al di sopra delle preoccupazioni terrene". Di questa umanità Karrer è il simbolo paradigmatico, l’emblema dell’uomo avvinto dalla forza dirompete della storia, costretto a vagare in cerca di un appiglio sicuro, forte, che lo sottraga dalla necessità di essere abbandonato a se stesso. "Si abbottoni, gli dice ancora la signora del Titanik, una sorta di angelo consigliore, non si può mai sapere con un tempo così umido e piovoso. La nebbia si infila negli angoli e nei polmoni. Si insidia nell'anima". Una frase che dice tutto (in un film peraltro parco di parole), sulla possibilità di convivere con gli eventi che seguono il proprio corso e sulla difficoltà di sfuggire alla loro natura prevaricatrice. Karrer è ormai insediato da una vita che lo ha ridotto alla solitudine, non gli resta che cullare gli ultimi rantoli di un amore ancora vivo e aspettare di ritornare alla terra che si è fatta fango.
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