Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Una limpida panoramica su un mondo svuotato dall’attesa di un giudizio universale, di cui la solitudine e l’impotenza sembrano voler essere un’anticipazione. L’obiettivo non segue l’azione, bensì asseconda, lenta, il percorso dello sguardo che si posa stanco sulle persone e sulle cose in abbandono, in un deserto cittadino interrotto solo dal passaggio di cani randagi, e in un silenzio infranto unicamente dallo scarrucolio di una teleferica per il carbone. Il monologo è la dimensione di chi parla già sapendo di non essere capito, e l’immobilità è la condizione naturale di chi ha rinunciato ad agire, essendo oramai certo dell’inutilità di ogni iniziativa. L’occhio del destino ci guarda fisso da lontano, come la macchina da presa che non si cura di avvicinarsi a soggetti in movimento, di stare dietro ai personaggi che stanno per uscire dall’inquadratura, dimostrando, a volte, di volerli scientemente perdere di vista, tanto, prima o poi, ritorneranno. Infatti nessuno può scappare, perché l’impossibilità del cambiamento è un girotondo in cui l’umanità è irrimediabilmente intrappolata: non è vero, come afferma una delle figure secondarie di questo film, che nel tessuto delle cose v’è sempre una crepa attraverso cui fuggire. Invece, per il protagonista Karrer, ovunque regna la follia della mancanza di speranza, che è come una forma precoce di vecchiaia, ed è la consapevolezza di non poter fare alcunché per modificare la propria sorte nefasta.
La fine di tutto è già iniziata, perché niente può evolversi, se non verso la disintegrazione. La ribellione dell’eroe è un atto dirompente che, strappando il velo protettivo che copre la generale agonia della nostra specie, non fa altro che accelerarne la corsa verso l’autodistruzione. La musica ed il ballo, con la loro languida ripetitività, sono un anestetico contro il dolore di vivere invano: una nuvola di torpore in grado di sospendere i pensieri, rivolgendoli, sanamente, verso un nulla remoto ed anodino, come il quadro di una finestra affacciata su un paesaggio grigio ed immutabile. Rispetto allo spirito popolaresco di Prefab People, si nota qui una decisa conversione al nihilismo, che sottrae all’atmosfera della festa danzante anche l’ultima, residua, parvenza di gioia, trasformandola nella malinconia celebrazione di una sorta di carpe diem dell’oblio. Di questa mesta coreografia fanno parte anche i riti dell’amore, con i loro meccanismi inseriti nel grande, pesante ingranaggio del cosmo, eppure capaci di procurare, in chi li pratica, una temporanea illusione di aerea leggerezza. Subito dopo, tutto ritorna oppressivo come la pioggia battente, che reca con sé il fardello della noia, il gravame della coscienza, la zavorra dell’istinto, e ci schiaccia crudelmente al suolo. Come così efficacemente descritto, da Tarr, nelle ultime sequenze del film, l’esistenza è un pantano, e noi siamo creature di fango, e quindi l’acqua che scende abbondante dal cielo, mentre intralcia i nostri passi, ci plasma a suo piacere, rendendoci incostanti, e dunque traditori.
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