Regia di Rizal Mantovani vedi scheda film
La cosa che sempre stupisce di più dell’horror indonesiano (Joko Anwar docet) è il bypass di tutte le fasi dello scetticismo che spesso fanno il 50 se non l’80% degli horror occidentali. Nessuno dei personaggi negli horror indonesiani mette in dubbio l’esistenza del sovrannaturale. È in generale filosofia ricorrente dell’horror orientale – il J-Horror per esempio racconta di un rapporto non divisivo ma speculare fra mondo dei vivi e mondo dei morti – ma in Indonesia la sfacciataggine con cui i demoni fanno capolino non concede dubbi ai protagonisti, né li sorprende più di tanto.
È il caso di Train of Death, 5 carrozze lanciate in mezzo alle foreste nei dintorni di Giakarta per raggiungere un resort, una gerarchia sociale definita dalla vicinanza al vagone motore – Snowpiercer neanche troppo sottile riferimento – e una manciata di protagonisti in pena o semplicemente idioti, l’agnello sacrificale collettivo di una mattanza ad opera di demoni erbacei della foresta, arrabbiati per il disboscamento. Si diceva della serenità e della coesistenza col sovrannaturale: ecco, la prima volta che il principale antagonista, il signor Bara (!), vede un demone in una ripresa di sorveglianza nella carrozza numero 4, non è affatto turbato dal vederlo; è turbato invece dall’idea che gli ospiti illustri della carrozza numero 1 possano preoccuparsi. Il film dà per assodato il costruirsi del worldbuilding, o in generale del gimmick dinamico con cui si muovono le vicende, poiché si dànno per assodati l’esistenza dei demoni e il meccanismo con cui aggrediscono, dalla carrozza numero 5 via via fino alla numero 1 staccandone dal resto del treno una per volta a ogni ingresso in galleria, a ogni calo dell’oscurità. Tutto facile e intuitivo, ma problematico, perché i ricchi non vogliono stare coi poveri, i pochi sopravvissuti dei poveri devono avanzare, e il personale di bordo deve fare lo gnorri.
Sebbene su questo fronte si goda in fluidità senza i rintronamenti scettici occidentali, è difficile lasciar passare di contro la banalità del social commentary nonché la mattanza altrettanto gravosa di montaggio, di direzione degli attori, di costruzione delle sequenze. Qui sì che esplode tutto, non solo i corpi emoglobinici, visto che le reazioni umane sfidano Stanislavskij e forse anche l’alfabetismo più elementare della recitazione. Il regista Rizal Mantovani sembra non sapere dove guardare, e ogni volta che deve aprirsi su panoramiche o chiudersi a riccio sui primi piani sembra dimenticarsi come si scrive “raccordo”. L’esperienza è dunque una sferragliata sbilenca di sciocchezze poco paurose, di drammini umani risibili (c’è anche una malata di cancro), di didascalismi ambientalisti che chiedono meno dell’1+1. Ridateci Joko Anwar.
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