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Il prigioniero del terrore

Regia di Fritz Lang vedi scheda film

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La recensione su Il prigioniero del terrore

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un film astratto e angoscioso dove niente è quel che sembra e nulla si conferma poi realisticamente conforme a quello che le apparenze sembravano mostrare. Si parte già da una posizione fortemente ansiogena mentre le piste si aggrovigliano e la realtà diventa sempre più sfuggente fra sospetti e labirintici percorsi che non danno alcuna tregua.

Un film astratto e angoscioso dove niente è quel che sembra: l’andamento è lineare, ma il ribaltamento di ciò che viene rappresentato è continuo: qui davvero nulla si conferma poi realisticamente conforme a quello che le apparenze sembravano mostrare. Le piste si aggrovigliano, i sospetti diventano insinuanti, si incuneano implacabili senza risparmiare nessuno, nemmeno l’amore e il percorso si fa labirintico, una corsa a ostacoli e contro il tempo senza un attimo di tregua in una realtà cangiante e sfuggente che non consente di far assumere dimensioni definite, rassicuranti e chiare, persino all’istituto dal quale viene rilasciato il protagonista all’inizio dell’azione (prigione, clinica o cos’altro ancora?) né ci è permesso di acquisire una immediata conoscenza delle cause di quella prolungata detenzione che potrebbero diradare “il dubbio” e in qualche modo rassicurare… Si parte così già da una posizione fortemente ansiogena, sapientemente amplificata fino dai titoli di testa da quell’orologio che scandisce inesorabile il tempo come un presentimento di pericolo incombente, una atmosfera inquieta che assume caratteristiche sempre più debordanti via via che la storia si evolve e si “ingarbuglia”, fra ciechi che tali non sono, false indovine, morti solo apparenti, istituzioni filantropiche che non si confermano propriamente così dedite alla beneficenza come vorrebbero apparire, ma nascondono invece inconfessabili e pericolosi “segreti” in un crescendo parossistico di colpi di scena dove persino una torta acquisisce il senso di una sconosciuta e incombente minaccia. Ci si “fida” allora di chi è infido e si “teme” viceversa chi si avverte come nemico ed è invece dalla nostra parte: il procedimento è sottilmente allusivo e riesce progressivamente a destabilizzare sempre più lo spettatore, grazie a una sapiente struttura narrativa che gioca molto sulle atmosfere e sugli oggetti senza preoccuparsi molto della veridicità delle azioni (e Lang si conferma insuperabile maestro nel suggerire e “seminare” false piste che si aggrovigliano sempre più sul protagonista all’interno di un universo geometrico così intricato da rasentare l’irrealtà illusoria degli incubi). Ispirato al romanzo di Graham Greene “Quinta colonna”, è la storia di Stephen Neal dal tragico passato (un convincente Ray Milland) che viene coinvolto per un insolito concatenarsi di circostanze fortuite in un complicato e spaventevole affare di spionaggio e di “infiltrazioni” naziste dal quale deve suo malgrado districarsi se vuole salvare la pelle, purtroppo pero tradotta in una sceneggiatura piena di incongruenze e non particolarmente esaltante che il regista aveva dovuto accettare a scatola chiusa senza condividerne l’impianto. Lang (che pure era interessato al soggetto, probabilmente per la tematica, visto che “sapeva bene” di che cosa si parlava anche per esperienza personale) sembrò quasi affrontare di mala voglia l’impegno ormai assunto (non è oggettivamente una delle pellicole che lui apprezzava particolarmente, come pure Greene, che si dichiarò in più di una occasione decisamente insoddisfatto di questa trasposizione) ma nonostante ciò, i risultati sono indiscutibilmente eccellenti (magari girato con “la mano sinistra” e solo per questioni alimentari, ma con la inarrivabile maestria dell’artista di rango che è sempre capace di lasciare un segno tangibile e indelebile della propria inconfondibile qualità, comunque vada). Quasi si trattasse di una costruzione onirica, Lang fa così muovere il protagonista senza preoccuparsi troppo della congruità comportamentale e costruisce la suspense in progressione creando un clima angosciante che ci attanaglia, attraverso un appropriato utilizzo dei particolari (l’implacabilità del pendolo che scandisce il tempo nella splendida sequenza d’apertura già sopra ricordata, la nebbia che si infiltra dappertutto e i chiaroscuri molto accentuati dei contrasti netti del bianco e nero incomparabile che “colora – è proprio il caso di dirlo – la pellicola”, le incursioni aeree e i bombardamenti, la bieca, incombente insistenza quasi deformata della presenza in primo piano di quelle enormi forbici da sarto maneggiate dal redivivo Duryea, che riescono davvero ad assumere la dimensione di un immaginario e “spaventoso” strumento di morte, le luci quasi di stampo espressionista della falsa seduta spiritica che isolano i volti attoniti e nervosi dei presenti, i frequenti inseguimenti che culminano in quello mirabolante su per le scale dove niente, nemmeno il minimo movimento degli attori o della macchina da presa è lasciato al caso, ma è invece il frutto di una attenta analisi strutturale della sequenza, come dimostra la documentazione dei ”disegni” lasciata dal regista che ne anticipano “visivamente” ogni particolare e scansione, l’ingegnosa scena buia dello “sparo” attraverso la porta dove c’è solo l’esiguo chiarore del foro netto della pallottola che lasca passare la luce dal corridoio ad “illuminarci”, quasi un occhio che osserva ma che non permette di capire che cosa è davvero accaduto al di là e non è disponibile a chiarire il mistero fino a quando il portone non verrà aperto. No, davvero: molto di più di una “pausa”, sia pure intelligentemente risolta - o di un "semplice divertimento" anche se di quelli geniali e perfettamente riusciti, come giustamente ha sottolineato Goffredo Fofi – questa specie di incubo irreale dove niente è veramente distinguibile e men che meno il male (qui la Quinta colonna dei nazisti infiltrati in Inghilterra) che assume la la consistenza impalpabile della nebbia e la capacità di nascondersi e di camuffarsi come quelle ombre che appaiono e scompaiono a seconda delle angolazioni della visuale e della quantità di luce che si riesce a proiettare, troppo spesso insufficiente per evidenziare che cosa si cela effettivamente dietro le apparenze.

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