Regia di Hélène Cattet, Bruno Forzani vedi scheda film
“Diamonds are forever”, diceva Shirley Bassey nei titoli di testa di Una Cascata di Diamanti (1971), il settimo film di James Bond. E qualcun altro, in Italia e altrove, ha pure ribadito più volte che un diamante è per sempre, anche con una certa insistenza. Hélène Cattet e Bruno Forzani però non sono d’accordo: nel titolo del loro film c’è un diamante morto, un diamante che anche se è morto riflette ancora. Ma cosa riflette?, se non le mille possibilità dell’immaginazione cinematografica, e quindi i generi, le scenografie, le fotografie argentiane e i carismi action degli agenti segreti di ieri e di oggi, da Guy Hamilton a Philippe de Broca passando per Terence Young e Mario Bava. Li riflette come se quei generi, quelle scenografie e quei carismi esistessero ancora. Ma il diamante è, per l’appunto, morto. Lo sono tutti i diamanti, anche quando crollano a cascata sulla macchina da presa dei due registi francesi (attivi in Belgio), qui al loro quarto folle caleidoscopico lungometraggio. E allora? C’è forse vita qui da qualche parte?
Probabilmente no, e se c’è è senile. È quella di un uomo anziano in una località della Costa Azzurra. Un uomo che comincia a intravedere intorno a sé alcuni fantasmi del passato, così che noi possiamo forse imparare a conoscerlo: era un agente segreto? Era un attore? Era un autore di fumetti? Fa differenza? Quei fantasmi sono vividi come le sensazioni terroristiche che Cattet e Forzani liberano con crudeltà pura, in un gesto cinematografico che ha pochi uguali nel cinema contemporaneo anche rievocando le loro radici (gli autori della New French Extremity) e i loro più fortunati seguaci (la mandria dei registi glittercore, da Bertrand Mandico a Alexis Langlois). I due registi fanno jam session in cui al posto degli strumenti jazz usano fari accecanti, sovrimpressioni da giocoliere, contrappunti cacofonici degni di Nobuhiko Obayashi ed epilettici tagli di montaggio. Vedere un loro film è addentrarsi in una foresta di segni da ricostruire e ricollegare, e in cui lasciarsi andare è possibile ma solo finché il genere cinematografico non torna tiranno a dettare le leggi del dramma, quasi che come in un delirio lynchano non fossimo mai liberati del tutto nell’inconscio ma fossimo costretti a fare i conti con i nostri fantasmi interiori, le narrazioni che già conosciamo, i presupposti iconici che ci fanno da bussola nella foresta. Il cinema, appunto, che nei film dei due registi diventa creatura vorace che si autocannibalizza da viva, facendo riecheggiare ogni morso, deturpandosi senza mai riuscire a rendersi irriconoscibile.
Se non avessero ripiegato su un epilogo che rende chiaro l’intrico di vie narrative del film, Cattet e Forzani avrebbero a tutti gli effetti realizzato, con Reflet dans un diamant mort, un lungometraggio surrealista - ringraziano sia Maya Deren che Jean Cocteau, a più riprese - uno scarabocchio incontrollato che forse stucca ma solo quando già è inevitabile, con la giusta propensione d’animo, che quell’energia abbia fatto breccia nello spettatore, seppure o anzi proprio per le contraddizioni di una nostalgia che non è tenera ma è sempre e solo mortifera. Coi tempi reazionari che corrono, quindi, forse una nostalgia ancora più importante e interessante.
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