Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Immaginate un lungo corridoio, in fondo al quale si trova una porta. Aprendola il buio invade il vostro sguardo che, solo dopo essersi abituato alla poca luce, scorge una scala a chiocciola, di ferro, che scende verso il basso. Pian piano iniziate a scenderne gli scalini; giù, sempre più giù, fino alla bocca dell’inferno.
Ecco, è questo che vedo ogni volta che ripenso a Requiem for a Dream, il quasi esordio alla regia di Darren Aronofsky o quantomeno il film che lo ha reso celebre. il racconto di quella che è la parabola discendente dell’essere umano causata dall’abuso di droga e dalla mancanza d’affetto. Perché se la prima cosa che salta all’occhio è senza dubbio questa denuncia a spada tratta contro la droga e le sue conseguenze, altro fattore al centro del racconto è l’incapacità di amare che caratterizza ogni protagonista, non solo verso l’altro ma anche verso se stessi.
Le tre parti in cui la pellicola è divisa, identificano gli stati emotivi e discendenti dei protagonisti. Estate, Autunno e Inverno, il declino assoluto. Tutto spasmodicamente letteralmente sputato in faccia allo spettatore che si ritrova, senza saperlo, in un vortice che risucchia chi guarda lasciandolo andare solo alla fine, con tanto di nausea, molto simile a quella che ti invade quando scendi dalle montagne russe dopo aver mangiato troppo.
Gli effetti collaterali te li porti addosso per un bel po’, ci ho messo settimane prima di riuscire a sedermi davanti al pc per scriverne e, dovendo poi rivivere le immagini, anche le sensazioni sembrano tornare a galla inesorabilmente. Il merito è senza dubbio del regista che si prende la briga di costruire un film disturbante (come altri suoi a venire) tanto quanto affascinante (lo sguardo si incolla fino alla fine senza vacillare mai) ma anche del favoloso cast: Jared Leto giovane (il film ha quasi vent’anni) ma già immensamente bravo e Jennifer Connelly che già all’epoca non sbagliava un colpo.
Resta il fatto che tutto è al posto giusto, nella giusta forma. La colonna sonora, mai fuori luogo; la fotografia con i suoi colori pastello d’estate, e il sole che scalda i corpi che lentamente si svuotano, come la polvere che intravediamo nei raggi di sole che non entrano dalla finestra socchiusa in cucina, dove tutto è più freddo, man mano che si va verso l’inverno. E mentre Leto riesce a dare forma alla speranza e la Connelly alla perdizione assoluta, il decadimento ha il volto di Ellen Burstyn, perfetta nel ruolo della madre e moglie orfana di uomini a cui dedicarsi che prova ad amare se stessa, scatenando una reazione uguale e contraria che avrà delle conseguenze drammatiche.
Un film impegnativo, vorticoso e triste, molto triste ma, senza dubbio, necessario.
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