Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Darren Aronofsky introduce il pubblico nell'Universo spesso irreversibile della tossicodipendenza. Senza giudicare perché o percome ci si arriva. Ma tracciandone, con necessaria cattiveria, le conseguenze. Che in breve tempo possono condurre all'Inferno: un luogo che, per tante (troppe) persone, è qui. Ora. In questo stesso momento.
Sara Goldfarb (Ellen Burstyn), senza più marito, ripone tutte le sue attenzioni verso il figlio Harry (Jared Leto). Inutilmente, perché quest'ultimo, assieme alla fidanzata Marion (Jennifer Connelly) e all'amico di colore Tyrone (Marlon Wayans), sempre più sprofonda nel mondo della tossicodipendenza. Marion tenta di aprire un negozio di abbigliamento, nel quale impegnare il suo talento da stilista. Harry e Tyrone provano, invece, ad inserirsi nel settore illegale dello spaccio. Nel frattempo Sara, sempre più sola e abbandonata, riceve un invito -perché estratta a sorte- in un programma televisivo. Decide di vestire con l'abito rosso indossato in occasione di una importante cerimonia, ma qualche chilo di troppo la convince a iniziare una dieta.
"Non preoccuparti, non è vero. O, anche se è vero, poi tutto si aggiusta." (Sara al figlio)
"Sono stata scelta come ospite per uno show televisivo (...) adesso sono importante, sono qualcuno e tutti mi guardano bene. E, tra poco, milioni di persone mi vedranno e tutti mi vorranno bene (...) è un motivo per alzarmi al mattino. È un motivo per dimagrire e indossare il vestito rosso. È un motivo per sorridere. Per pensare che il domani sarà bello. Che cos'altro ho Harry? Perché affannarmi per lavare i piatti o rifare il letto? Lo faccio, sì. Ma perché dovrei? Sono sola. Tuo padre non c'è più. Tu, tu non ci sei più. Non ho nessuno per cui... darmi da fare. Che cos'ho, Harry? Sono sola. Sono vecchia." (Sara)
Due stagioni piene, nell'arco di sei mesi: vanno dall'estate all'inverno. Un tempo brevissimo, quasi infinitesimale se paragonato ai cicli storici (già istantanei nell'espandersi dell'Universo) che contraddistinguono l'evoluzione della specie. Sei mesi, ventisei settimane, centottanta giorni, quattromilatrecentoventi ore: quanto basta per distruggere quattro vite. Il sogno americano finisce per provocare un corto circuito: apparire in televisione, essere pieni di soldi, senza lavorare. Solo sesso, droga e bella vita. Bella vita? "È tutto sotto sopra, tutto confuso", così Sara confessa il suo stato d'animo al medico che le ha prescritto farmaci a base di anfetamine, per sedare la fame, come dieta dimagrante. Perché davvero è tutto sotto sopra, quando l'Inferno arriva. E non è, l'Inferno, un luogo dantesco, sotterraneo, animato da diavoli con forconi o reso incandescente da fuochi eterni. No. L'inferno è più vicino di quanto possiamo immaginare. Vicino in tutti i sensi, nello spazio e nel tempo (sei mesi come nel film). E il sogno, paradossalmente, che fanno i protagonisti vinti, sconfitti e ormai dannati, è quello di poter abbracciare la madre, di unirsi in matrimonio e di avere un futuro prevedibile e convenzionale. Ma un futuro di certezze, ovvero pieno di affetto, amore e onestà.
Ispirato dall'omonimo romanzo scritto nel 1978 da Hubert Selby, alla sua seconda regia Darren Aronofsky dona tutto se stesso. Ripone nel progetto tutte le sue energie, circondandosi di talenti in ogni settore. Dagli attori (eccezionale sia Ellen Burstyn, che Jennifer Connelly e Jared Leto) al testo (sceneggia il già citato Selby), passando per la fotografia e -fondamentale- una colonna sonora straziante e perfetta, opera di Clint Mansell, in grado di amplificare lo stato di percepibile disagio che avvolge, implacabilmente, gli sfortunati personaggi. Lontano dal condannare il loro comportamento (Harry e Tyrone, fondamentalmente brave persone, nutrono sentimenti di rimorso verso la madre, sentendosi in colpa), Aronofsky utilizza una tecnica di ripresa spiazzante: dallo split screen al movimento accellerato (da Oscar il momento in cui Sara, facendo le pulizie domestiche, viene ripresa a multipla velocità mentre la macchina da presa si sposta al ralenty). Ogni tentativo di iconoclasta messa in scena è orientato a calare lo spettatore nello stato di percezione distorta, vissuto da chi è sotto effetto di droghe. Come quando Marion, dopo essersi data sessualmente -per una dose- allo spacciatore, uscendo dall'ascensore vomita: il punto macchina, durante un vertiginoso piano sequenza/soggettiva, è in una posizione destabilizzante. Requiem for a dream è un film di denuncia. Ed è dolorosissimo, come necessariamente deve esserlo dato il tema trattato.
La mezz'ora conclusiva supera qualunque altro titolo drammatico sullo stesso tema e induce lo spettatore a condividere -con sofferta partecipazione- il tormento, la disperazione, la decadenza, l'annichilimento dell'essere umano quando, per circostanze a volte fortuite (la cura dimagrante di Sara), cade nel tunnel della dipendenza. È significativa la posizione assunta dai quattro protagonisti nelle sequenze di chiusura: soli, abbandonati in squallidi ambienti, assumono sdraiandosi la posizione fetale, in un atto che annuncia il sonno, nella speranza di una (impossibile) rinascita. È allora che la ragione si spegne, va a dormire. Ma in quel sonno i sogni che si manifestano (su un futuro immaginario e, per una macabra ironia della sorte, di routine) cedono presto la configurazione -purtroppo reale- all'incubo più distruttivo dei nostri tempi. Un incubo che ha un nome terribile, e si chiama droga.
"Nella vita voglio solo un po' di pace e di gioia." (Tyrone)
"Mi spiace, mi dispiace tanto. Sono stato un bastardo... voglio solo che tu stia bene." (Harry in una rara visita alla madre)
La stupenda colonna sonora di Clint Mansell:
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