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Requiem for a Dream

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Requiem for a Dream

di OGM
10 stelle

È sbagliato – oltre che riduttivo – ritenere che la forza espressiva di Requiem for a Dream si risolva nell’impressionante realismo delle immagini e delle situazioni, o nel parlottio ottico delle tante sottolineature psichedeliche. A gridare, in questo film, è soprattutto lo iato allucinante tra il modo in cui personaggi vedono se stessi e il modo in cui appaiono a noi e all’ambiente circostante; l’abisso sconvolgente tra ciò che essi sognano di diventare e ciò che finiscono per essere. L’acida poesia dei junkies viene qui privata di ogni profumo visionario ed ogni euforia melodica: il ritmo della tossicodipendenza è quello di una rovina che assale gli individui a scatti, culminando nella pulsazione tetanica di un dolore che macera la carne e spezza il fiato. La frammentarietà del montaggio, pur ricordando, nella tecnica,  certe composizioni grafiche da videoclip, non ne ha, tuttavia, le connotazioni estetiche, né l’asciuttezza formale; il movimento non è quello di un collage fotografico danzante,  bensì quello di pezzi di vita che si sfaldano, e si rincorrono nell’impossibile ricerca di un’unità perduta. La crisi assume i tratti di una stop motion sgranata, in cui, insieme alla continuità, sono venuti meno il senso logico del tutto, la coerenza con la realtà, la consapevolezza del rapporto tra la causa e il suo effetto. La droga – che si chiami eroina, televisione o sesso – è il cuneo tagliente che si insinua tra l’uomo e i suoi irrazionali desideri; è l’illusoria via che promette di modificare le proporzioni della propria immagine nel mondo, accrescendo il potere, la fama, la ricchezza, ed invece intrappola in un infinito ed alienante viaggio verso il nulla. Il vortice mortale è formato dal risucchio della vanità, che si nutre di artefatti e per questo incancrenisce; è la vita avvelenata, che dal rosso acceso di un vestito fiammeggiante, di una capigliatura tinta e di una bocca truccata, passa allo squallido blu di un camice di ospedale, di un’occhiaia livida e di una ferita infetta. L’unica fuga dal cammino infausto e senza ritorno è quella che costringe a tagliarsi definitivamente fuori: amputandosi un braccio, come Harold, azzerandosi la mente con l’elettrochoc, come Sara,  rinchiudendosi in un carcere, come Tyrone, o annientando la propria dignità di donna, come Marion. Salvarsi significa infatti dimenticare non solo ciò che si aspirava a divenire, ma anche ciò che realmente si era, spogliandosi per sempre di un corpo ormai contaminato, perché imbevuto della linfa putrida dell’autoinganno. Questo requiem di Aronofsky è una agghiacciante sinfonia fisiologica, che descrive in suoni, immagini e colori un infernale processo degenerativo, in cui l’appetito si trasforma dapprima in sazietà, poi in nausea e, infine, in una terribile morsa di febbre e convulsioni.

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