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Toby Dammit

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Toby Dammit

di yume
8 stelle

Mediometraggio incapsulato in un film a più mani, di quelli che negli anni sessanta erano frequenti,incontravano il gusto del pubblico e spesso contenevano autentiche perle miste a prodotti di media caratura.Incomprensibilmente il meno conosciuto del regista, quasi perso fra i colossi della sua filmografia, ma svolta decisiva nel suo cinema.

locandina

Toby Dammit (1967): locandina

Nel ’68 Fellini gira un film-cesura che divide la sua filmografia in un prima e in un dopo. Si tratta di Toby Dammit , un mediometraggio di 43’ incapsulato in un film a più mani, di quelli che negli anni sessanta erano frequenti, incontravano il gusto del pubblico e spesso contenevano autentiche perle miste a prodotti di media caratura. Pensiamo a La ricotta e a Cosa sono le nuvole di Pasolini, ad esempio.

Decisamente oltre Vadim e Malle, autori delle altre due parti di Tre passi nel delirio (titolo completo del film), Fellini affronta un’esperienza densa di presagi su quello che sarebbe stato da lì in poi il suo cinema.

Intorno a Toby Dammit i due mondi di Fellini si separarono e non è un caso che il primo lungometraggio girato dopo Toby Dammit fosse Fellini-Satyricon (1969), un ritorno al cinema dopo quattro anni di assenza e di crisi.

Toby Dammit nel ’68 era stato un impegno condiviso, meno defatigante di un intero film ma forse per questo occasione per una pausa di riflessione necessaria, non più procrastinabile.

Fellini ha sempre rifiutato etichette politiche, sappiamo che questo attirò critiche e dissensi, eppure il suo cinema è sempre stato profondamente politico nel senso più vero e profondo del termine.

Il suo è un discorso mai interrotto sullo stato dell’arte, sulle sorti del cinema, sul tramonto dell’occidente, sui suoi falsi miti, sull’individuo e le sue mortifere crisi d’identità.  

 “Roma prima di Cristo e dopo Fellini”, fu la frase di lancio di Satyricon, e andò molto oltre il suo immediato intento propagandistico.

Satyricon trovava in quel basso Impero prossimo alla catastrofe le tracce di una storia ciclicamente destinata a ripetersi nel presente, gli uomini e le donne si somigliavano, pulsioni, libidini, sogni e delusioni erano gli stessi.

“Si potrebbe dire per esempio che quella di Petronio è una società al tramonto, alla quale seguirà un’epoca nuova, quella cristiana, con un indirizzo nuovo, un linguaggio assolutamente sconosciuto, che lascia gli uomini in un profondo smarrimento. Lo stesso smarrimento, forse, la stessa golosità di vivere, la stessa ricerca sgangherata di oggi di fronte alla sensazione che si sta verificando un mutamento molto profondo, al quale la nostra generazione non è preparata…” diceva Fellini del film.

 “… si sta verificando un mutamento molto profondo

 Lo sguardo lungo di Fellini ne individuò i segni e ne definì le forme con l’esattezza di un matematico e la fantasia di un artista.

 A partire da Toby Dammit, un breve film che incomprensibilmente risulta il meno conosciuto del regista, quasi perso fra i colossi della sua filmografia, la svolta fu decisiva e densa di conseguenze.

Quanto ai credits non ci sono variazioni, il solito staff storico attornia il regista, così che sceneggiatura, montaggio, musica e fotografia sono sempre a livelli di eccellenza.

Quello che mette saldamente le radici nell’anno in cui è girato, il ’68, è il protagonista, Toby Dammit, interpretato da un superbo Terence Stamp.

Tornerà poi Mastroianni, anche Giulietta avrà qualche spazio, ma quanto lontani i tempi de La dolce vita,8½, La strada!

A Fellini si addice, quasi fosse sua, la celebre apostrofediMajakovskij: “Per voi il cinema è spettacolo. Per me è quasi una concezione del mondo.

Alla fine degli anni sessanta stava finendo un’epoca e quello che avverrà dopo non somiglierà in nulla a quello che era accaduto prima. Ma prima c’erano state le premesse ed era bene portarle alla ribalta in una fantasia onirica e surreale, se è vero che alle favole siamo portati a credere più che alla Storia.

Quella di Toby Dammit è una vicenda dalla forte carica simbolica.

Pur restando fedele al testo letterario di riferimento quasi solo nel titolo, lo spirito di Edgar Allan Poe aleggia incontaminato.

Toby è una star inglese in arrivo a Roma per girare il primo “western cattolico”.

Ecco i primi tre elementi che ci fanno definire “felliniano” un film di Fellini.

Dal cielo alla terra, dall’abitacolo angusto dell’aereo dove la claustrofobia di Toby comincia a manifestarsi all’aeroporto con monache svolazzanti, musulmani testa a terra in preghiera, donne manichino e paparazzi scatenati, prelati untuosi a fare da guida e improbabili monitor che dall’alto annunciano voli come in una trasmissione televisiva, nulla manca del repertorio noto, ma stavolta c’è una componente in più, l’orrore.

Terence Stamp

Toby Dammit (1967): Terence Stamp

E’ quello di Toby, con quel suo parlare stralunato, quel fuggire su per le scale mobili, sempre tra sonno e veglia con occhio vitreo da drogato, alcoolizzato, stupefatto e spaventato dal circo umano che lo assale.

Toby vorrebbe scappar via, non può, non conosce Roma, non gl’interessa guardare oltre il degrado delle strade sporche, invase da lavori in eterno corso, muri di scritte e traffico insostenibile.

Parla solo inglese, beve il suo wiskey dalla borraccia sempre in tasca, guarda con i magnifici occhi verdi un po’ socchiusi un mondo estraneo, deprecabile, ma gli resta la lucidità per chiedere la Ferrari che la produzione gli ha promesso.

La Ferrari, feticcio d’Italia, motore rombante troppo potente per strade troppo strette e dissestate, lo porterà, dopo lunga corsa nel vento, al ponte rotto da cui precipiterà, non senza aver guardato la sua allucinazione preferita: la bambina bionda con la bianca palla in mano.

In un gioco di luci e ombre, illuminazioni improvvise e spaventosi coni di buio, Toby corre verso la sua autodistruzione, che avverrà secondo i canoni più coerenti con il genere horror a cui il film strizza l’occhio.

La sua bella testa bionda mozzata di netto da un filo d’acciaio teso sul ponte, raccolta dall’ inquietante bambina bionda con gli occhi da adulta sposta il film entro i confini di un gotico di intensa bellezza, e in una sola inquadratura mette insieme Allan Poe, Mario Bava, creatore dell’icona infantile (Kill, Baby Kill ) e Fellini che, in stato di grazia, si prepara a raccontare la seconda parte di quel grande copione che fu la sua vita.

I rossi e i blu saturi di Roma 1971, il cicaleccio volgare e sfrenato prima che crolli il muro di Prova d’orchestra 1979, il percorso di autodistruzione di Casanova 1976, la nave che affonda di E la nave va 1983, gli enormi saloni onirici dominati da potenti matriarche de La città delle donne 1980, e infine il patetico ballo per spettacolini televisivi di Ginger e Fred 1986.

In Toby Dammit c’è già tutto e soprattutto c’è Roma, la Gran Madre che soffoca nel suo abbraccio incestuoso. Non è il diavolo con i suoi trucchi ad uccidere Toby, è quella Roma ingorgata, caotica, stracciona e cafona, supponente e ignorante, cresciuta a dismisura in dieci anni, senza che urbanisti e ingegneri potessero arginare, sanificare, migliorare nulla.

Il percorso in auto dall’aeroporto, schiacciato fra il vescovo e l’interprete, è una descensio ad Inferos per Toby che beve per sopravvivere, solo gli esterni di Ginger e Fred supereranno in bruttura quella specie di suburra dove sembra correre ancora trafelato Giovenale con la sua toga sudata in cerca di patrones.

"Roma è abitata da un ignorante che non vuole essere disturbato… un ignorante che vuol bene alla famiglia… Un grottesco bambinone che ha la soddisfazione di essere continuamente sculacciato dal papa."(Fellini)

Il teatrino al centro del film dove consegnano la Lupa e i lupacchiotti d’oro alle glorie dello spettacolo è poco più di una balera di periferia. Lì Toby tocca il fondo e lì pronuncia la sua invettiva più lunga, in inglese, nessuno capisce, tutti applaudono e non resta che fuggire, magari in Ferrari.

Come tanto tempo prima, in carrozza, capitò ad un altro illustre provinciale:

"Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista né per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi… e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali non furono italiani)… Così la prima città del mondo… pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata… condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista". (G.Leopardi, Zibaldone, Bologna, 1 Dec. 1825).

Fellini rimase, l’incanto che quella città gli comunicava non riuscì mai a finire. Ne fu un figlio insofferente e innamorato, tutto qua.

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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