Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Fedele al suo bianco e nero ed al dominio del piano sequenza, Béla Tarr dà il suo contributo, al solito intelligente, metaforico, delicato, alla lotta alle dittature ed i totalitarismi. Per tre quarti il suo “Le armonie di Werckmeister” è un film riflessivo, che silenziosamente esperisce la storia del postino Janòs (Lars Rudolph), un ragazzo tranquillo, curioso e forse un po’ troppo passivo. Janòs subisce le opinioni popolari e gli scontri ideologici in maniera del tutto disincantata, tralasciando la critica della realtà e vivendo in serenità nonostante attorno a sé vi sia inusitato fermento per un misterioso circo che porta nella tranquilla cittadina ungherese dove egli vive una grossa balena ed un saltimbanco detto “il principe”. Janòs sarà il tramite inconsapevole attorno a cui tutto si dipanerà, fino al concitato finale, in cui sarà proprio il postino a pagarne le conseguenze. L’ultima parte del film ha un registro narrativo differente, in cui la metafora si materializza in maniera più marcata ed incisiva, in cui la critica al sistema violento e triviale da parte del regista magiaro si fa più profonda e ficcante, alludendo a nuovi olocausti possibili laddove la sistematicità di certe situazioni si reitera diventando normalità quotidiana.
Le armonie del titolo fanno riferimento a quelle ricercate da uno dei protagonisti, il nobile Gyuri Eszter, che filosofeggia sulla teoria del compositore tedesco Andreas Werckmeister circa l’armonia musicale; per discorrere di tale argomento, il regista costruisce un ambiente fortemente e volutamente disarmonico, in cui gli squilibri vengono ostentati e le differenziazioni si sprecano (si pensi a Janòs che legge il quotidiano – voce ufficiale della cronaca – mentre nella profondità di campo si osserva e si ascolta una popolana disquisire dello stesso argomento da un punto di vista totalmente differente, oppure la prima suggestiva scena, girata in una taverna, in cui i maggiori reietti della zona mettono in scena la rappresentazione del sistema solare, ossia quanto di più nobile e vitale esista). Ma le rappresentazioni dei contrasti non finiscono qui: i dialoghi sono rarefatti e brevissimi, le quote rosa del cast sono in numero esiguo, la lunghezza dei piani sequenza è spesso estrema, l’inettitudine del giovane Janòs quasi irreale. In particolare si sottolinea l’indugiare da parte del regista su dettagli inutili, completamente insignificanti, come il carrello che accompagna Janòs e Eszter alla questua indotta da Tunde (4 minuti di nulla in cui si sacrifica il ritmo per dare modo allo spettatore di riflettere su quanto accaduto e congetturare su quanto accadrà – ribadendo che il cinema è anche critica sociale e spunto di riflessione).
I contrasti di Tarr servono a straniare, a preparare lo spettatore ad un finale grandioso, che avverte delle potenziali derive della modernità, sempre in bilico tra isterismi di massa, egoismi e totale disinteresse per la politica: elementi che culmineranno nella scena dell’irruzione nell’ospedale-casa di riposo, dove gli “invasori” tastano con mano la loro irragionevolezza quando si ritrovano davanti un anziano, nudo e scheletrico, completamente inerme (ed inerte).
Un film commovente e dalla matrice allegorica inarrivabile, in cui la riflessione è intra-visiva e non post-visiva, con l’occhio e la coscienza dello spettatore che combaciano alla perfezione con lo sguardo attonito e inebetito del protagonista. L’aulicità del pensiero e della tecnica di Béla Tarr sono un dono troppo grande per lasciarsi influenzare da potenziali difetti di fabbrica, come la durata eccessiva della pellicola o l’inutilità di alcune lungaggini di sceneggiatura, che indubbiamente ci sono, ma che fanno parte del gioco e che anzi ne caratterizzano la grandiosità della cifra stilistica coraggiosa ed inimitabile.
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