Regia di Béla Tarr vedi scheda film
La totalità sta nel Caos, nel silenzioso discordante, in cui trionfa il silenzio della Morte. L'armonia, la musica, l'ordine, la ragione, l'affetto (per estensione), sono solo inganni a cui l'uomo si aggrappa pur di vivere. Inganni necessari e inevitabili, menzogneri ma per i quali è doveroso cantare un ultimo commovente inno funebre. Le armonie di Werckmeister contempla gli antipodi e sa penetrare talmente in profondità nei mali dell'essere umano da estrarne l'unico corretto possibile manicheismo, quello della divisione assoluta e materialisticamente presente fra ordine e disordine, fra silenzio e rumore. La vita dell'uomo è fatta di ordine e disordine, di momenti bui di vario genere, da un camion che lentamente oscura le case sul bordo di una stradina a una Luna che improvvisamente oscura il Sole, e di momenti di rasserenamento illusorio ma soddisfaciente, quando il Sole ritorna a brillare con i suoi raggi e si può ritornare a danzare con i pianeti del Sistema Solare. Non importa se ci troviamo, in quell'occasione, in una bettola o fra loschi individui, anche i più poveri e i meno consapevoli hanno la loro buona dose di immortalità. Nella gioia che esiste e può esistere solo in funzione della sua distruzione, il mondo del paesino scivola nel Caos, quando un circo con due sole attrazioni, un'enorme balena imbalsamata e un Principe nano che mai ci viene mostrato se non nella sua ombra, porta nel paesino una nuova speranza di Totalità: se è nel disordine l'unica possibile forma di Tutto, perché ogni cosa si priva di una dimensione distintiva, allora scateniamo guerra contro le creazioni del Signore, accendiamo fuochi che salgano verso l'alto e picchiamo tutti i malati che negli ospedali versano lacrime perché già un loro disordine privato e intimo era stato creato naturalmente dalla malattia, e aspettiamo di trovare un individuo illuminato da una santità ormai impossibile, nel lurido bianco di un bagno, per cambiare idea e scomparire, dopo aver imposto, in una lunga marcia che riassume in sé stessa l'idea stessa della portata distruttiva della massa, la propria forza bruta che in quanto semplice forza bruta è classificabile solo in un modo, semplice, totale distruzione. La pericolosità della semplicità; teniamoci stretti, piuttosto, il mondo e le sue complessità, perché è quanto ci rimane davvero per rispondere all'eterna Indifferenza Tarriana, anche solo nella dimensione della riflessione.
Tarr parla del presente, utilizza la musica splendida di Mihàly Vìg per alternarla ai silenzi stracciati delle urla dei malati picchiati che non ci sono, che rimbalzano nelle nostre orecchie ma non si avvertono fisicamente. Nei lunghi piani sequenza ripercorriamo le fasi di un'Apocalisse prettamente umana e non del tutto metafisica, in cui è l'uomo a procurarsi la stoccata finale, senza per questo negare l'appiattimento naturale e disumano del nulla incombente, come se l'uomo volesse accompagnarsi verso l'autoannichilimento, ribellandosi contro un disperato nonsense esistenziale che vedrebbe l'umanità come fin troppo complessa per essere compresa (è solo il benestante signor Gyuta, per cui il protagonista Janos lavora, che comprende davvero a livello filosofico i passaggi menzogneri delle armonie di Werckmeister e teorizza la definizione per cui l'ordine è menzogna) e fin troppo finta e ricostruita (dalla civiltà?) per essere accettabile. Non riesce ad andare oltre la verità, la povera gente, e non ricerca la diretta utilità della felicità illusoria. Specie se davanti a loro viene portata la balena, per Janos creatura del Signore, un tempo vivente ma adesso imbalsamata e sistemata come oggetto di spettacolo, una semplice finzione. Che poi è la finzione dell'arte, del cinema, che in sé sono finzione ma sanno mostrare la triste realtà.
Rimanendo straordinariamente coerente con i temi trattati, Tarr rende comprensibile il suo film ai più, eliminando le splendide lentezze di Satantango, portate all'estreme conseguenze dell'arrivo apocalittico del Cavallo di Torino, ma riuscendo a commuovere tanto quanto faceva Erika Bok nel film del '94 se non di più, in quegli squarci lirici di pura poesia in cui irrompe la musica che crea l'amorevole inganno, una realtà in cui l'armonia possa rendere le cose più dolci. Inutile comprendere la finzione: Janos diventerà folle, e anche mentre gli parlano continuerà a cantare sottovoce, per ricrearsi la sua armonia, la sua musica. E' vero, l'ordine è finzione, come è anche mera politica (il personaggio di Thude, che si mette d'accordo con i militari e che è nemica acerrima del suo ex-marito, proprio Gyuta), ma può stare in disparte nell'ingenuità di Janos, ingenuità che è vero e proprio patrimonio dell'umanità. Mentre la nebbia si diffonde fitta, e attendiamo (e viviamo) il buio dell'ellissi, l'arte sa sprigionare la sua forza, e farci di nuovo vivere. Tarr è in grado, con Le armonie di Werckmeister, probabilmente il suo film migliore, di farci tornare a vivere.
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