Regia di Phillip Noyce vedi scheda film
CURIOSA CARRIERA QUELLA DEL REGISTA AUSTRALIANO PHILLIP NOYCE. DOPO IL FORTUNATO DEBUTTO in una produzione hollywoodiana ("Ore 10: calma piatta": non lo ringrazieremo mai abbastanza per averci fatto conoscere l’allora sconosciuta Nicole Kidman!), viene adottato dalla più potente industria cinematografica mondiale e così continua a realizzare un blockbuster dietro l’altro: "Sotto il segno del pericolo", "Giochi di Potere", "Il collezionista di ossa". Dopo dodici anni ha deciso di ritornare in Australia per dirigere una storia lontana dagli standard hollywoodiani ma profondamente radicata nel suo territorio d’origine: "La generazione rubata". Ossia quella generazione di bambini (per lo più mezzo sangue) che dal 1900 al 1970 vennero sottratti con la forza alle loro madri, alle loro famiglie e alle loro comunità aborigene, per essere addomesticati in speciali colonie rieducative e “preparati” alla loro nuova vita nella società dei bianchi.
Ennesimo capitolo dell’ingerenze delle colonizzazioni europee ai danni delle popolazioni locali di turno, quelle perpetrate dall’uomo bianco in Australia ebbero conseguenze devastanti e che nel simbolico “Rabbit-Proof Fence” (la rete che percorre, da nord a sud, tutto lo stato del Western Australia per tenere i conigli lontano dai pascoli poiché, introdotti dagli europei, si sono riprodotti a dismisura e rappresentano una minaccia per l’agricoltura) trovano la più significativa bandiera dell’oppressione di un popolo.
Phillip Noyce ha così deciso di raccontare queste pagine di storia drammatica del suo paese, ed ispirandosi alle vicende reali di tre bambine indigene australiane (strappate alle loro famiglie e portate alla colonia di Moore River, dopo un solo giorno di “prigionia” scapparono ed affrontando a piedi un viaggio di più di 1500 miglia riuscirono a ritornare a casa), ci ricorda gli eterni pericoli e le grave conseguenze di una politica di colonizzazione (in nome di qualsiasi razza o religione venga perpetrata) senza regole e ottusamente egemonica.
Ma una materia così potentemente drammatica forse avrebbe necessitato di una regia meno edulcorata (danno il loro contributo la fotografia patinata e suggestiva di Christopher Doyle e le musiche di Peter Gabriel) per farci appassionare con più sincera partecipazione alla lunga e disperata fuga verso casa di queste tre bambine. Reale empatia invece che scatta quando il nostro sguardo “occidentale” si perde negli immensi occhi neri delle tre attrici bambine aborigene (Everlyn Sampi, Tiranna Sansbury, Laura Monaghan), che, scelte dopo innumerevoli provini, conservano intatto nel loro sguardo la dignità ed il dolore di un popolo.
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