Regia di Valerio Mastandrea vedi scheda film
Spoiler. O, per meglio dire, vademecum per capire il film più astruso e inutile dell'anno. Un ospedale. Un tizio (Mastandrea) che parla al suo sé stesso in coma, rivolgendosi anche al ragazzino che l'ha ridotto in quelle condizioni. Una donna (Morante) fa altrettanto con il suo doppio e con la detestata sorella. E via andare. Nel nosocomio c'è anche una nuova arrivata (Fonzi, diva del cinema argentino), che non vuole saperne di accettare quella condizione di limbo tra la vita e la morte. Tra lei e quell'altro si avvertono vibrazioni inedite.
L'opera seconda di Valerio Mastandrea (dopo il pessimo Ride) riporta l'attore/regista romano nei corridoi di un ospedale, come già in una delle sue prime interpretazioni, In barca a vela contromano. Il film aspira a essere una riflessione magniloquente e pretenziosa su quella zona liminare tra la vita e la morte, con riferimenti autobiografici e biografici (il padre, scomparso dieci anni prima, al quale è dedicato il film e la figura dell'unico personaggio capace di entrare in contatto con le persone in coma, interpretato da Giorgio Montanini, che l'esperienza del coma l'ha vissuta davvero). Peccato che il film - di una lentezza stremante - sia condito da simbolismi banali (le tempeste di vento come spinta ulteriore tra la vita e la morte) e personaggi con una mera funzione decorativa. Sicché il risultato non va oltre l'insipidezza del titolo: un avverbio che vorrebbe portare con sé quella carica di realismo magico di cui è impregnato il film.
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