Regia di Patrick Yau vedi scheda film
E’ impossibile analizzare questo film senza addentrarsi nei meccanismi della trama (perché di geniale meccanismo si tratta). Ma procediamo con ordine.
L’accoppiata Patrick Yau (regista) e Johnnie To (produttore e non solo) in questo film sembra di primo acchito volersi inserire nel filone poliziesco hongkonghese, con un’alternanza tra scene di scontro tra una squadra di poliziotti e una banda di stupratori assassini, girate con un ritmo frenetico e l’immagine sgranata, a momenti legati alle interrelazioni sentimentali tra i protagonisti (un’esasperazione dei sentimenti è un classico delle produzioni action made in HK del periodo, cfr. The Killer di Who). Man mano che la storia procede il lato relazionale sembra prendere il sopravvento sulle indagini fino a scivolare quasi verso lo stucchevole. L’inaspettatamente veloce e semplice prefinale alleggerisce ulteriormente i toni verso canoni confortanti.
Ma ecco che in un attimo tutto viene ribaltato e si scopre che quello che si ha davanti non è un ritmato poliziesco canonico, bensì un’opera(zione) clamorosamente concettuale, assimilabile per certi versi ad un altro film-saggio spiazzante, ovvero Funny Games. Come nel film di Haneke il rapito e torturato si scopriva essere il pubblico stesso, cavia di un prontuario illustrato dimostrativo sulla tensione, anche qui è lo spettatore ad essere messo in trappola e costretto a rileggere a posteriori quanto visto. E quindi l'eccesso di sentimentalismo si rivela un escamotage, un modo per costringere chi guarda ad empatizzare con almeno un personaggio (ce n'è per tutti i gusti tra almeno cinque differenti personalità per cui parteggiare) e ad abbassare la guardia. Ed ecco che quindi il personaggio della cameriera, corteggiata e protetta dai vari protagonisti, diventa un contraltare dello spettatore, come lui nel finale bloccata a guardare spiazzata e sconvolta quanto mostrato dallo schermo.
E dire che eravamo stati avvertiti fin dal titolo.
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