Regia di Andrea Segre vedi scheda film
La grande nostalgia è la cifra che ti assale durante e dopo la visione di “Berlinguer – La grande ambizione”. Nostalgia per un passato irripetibile in cui la politica era discussione, dibattito, confronto. Un periodo in cui l’ambizione di gramsciana memoria era fare collettivo, massa critica che prendeva posizioni decise in linea con il partito, partito amato e rispettato. C’è la genesi del compromesso storico per ancorare l’Italia alla democrazia, in un’epoca violenta e con il terrorismo in casa. La via italiana al socialismo (non quello reale da caserma dell’est), all’eurocomunismo che si affrancava dall’Urss in un momento storico del PCI nel pieno di consensi elettorali e di tesserati. L’inizio in Bulgaria, paese satellite dell’unione sovietica nel 1973 e il viaggio al congresso del PCUS a Mosca sono narrati con vibrante tensione e autenticità.
L’opera di Andrea Segre (scritta con Marco Pettenello e montata da Jacopo Quadri) sa spiegare con criterio (al limite del didascalico utile) lo sforzo del segretario Berlinguer nel condurre il più grosso partito comunista occidentale verso una via democratica. Combattere la crisi e il ritorno del divorzio, la sensibilità per i temi ambientali, la differenza tra capitalismo e socialismo spiegata in parole semplici ai figli. Chi ha letto una o due biografie su Enrico Berlinguer si ritroverà in questa bella ed emozionante pellicola. Le provocazioni di un Nanni Moretti che da extraparlamentare è diventato un borghese che ha bucato il sol dell’avvenire o le accuse ingenerose di agiografia non convincono per niente. Non è necessario fare accenni alle critiche al compromesso storico (che comunque affiorano in un paio di battute dei figli o nella scena del consiglio di fabbrica), perché esistono a riguardo già opere monumentali (in libro e in pellicola) come “Todo modo”. Di una politica così alta, di leader così carismatici e amati dal popolo se n’è perso lo stampino. Ed è un dato storico inattaccabile.
“La grande ambizione” ricostruisce sapientemente con bellissime immagini di repertorio un pezzo importante di storia dal 1973 al fatidico 1978. Gli incontri con un coriaceo Andreotti e un misterioso Moro, arricchiti dalle mimetiche interpretazioni, del primo soprattutto a cura di Paolo Pierobon e Roberto Citran (attore sottovalutato) che sottrae lo scettro al venuto a noia Fabrizio Gifuni in quei panni. Altri due elementi imprescindibili sono il protagonista Elio Germano, ammirevole per lo studio di mimesi del politico sardo: la delicatezza, l’umanità mista alla forza del pensiero e alla coerenza delle idee. Le musiche bellissime e dai suoni potenti di Iosonouncane (Jacopo Incani) richiamano quel decennio e plasmano bene immagini, visioni e parole.
Conclusione commovente e da pugni chiusi che sa tanto di passione e ideologia perdute.
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