Regia di Roberto Minervini vedi scheda film
Uomini senza nome, due secoli o due millenni fa, oggi, domani e certo anche dopodomani. Dov’è la pace?
Minervini l’ha girato nel Montana, e torna in mente quel mitico carosello di una vita fa: Laggiù nel Montana tra mandrie e cowboys/ c’è sempre qualcuno di troppo tra noi/ Black Jack va dicendo che troverà il modo/ di farmi sembrare un bel colabrodo/ però se a provarci un bel dì lo costringo/ vedremo chi cola, parola di Gringo”.
Oggi, in un tempo di guerre senza fine, così perfette e accessoriate da sembrare fiction di alto bordo, lo sgangherato manipolo di nordisti volontari della guerra di Secessione, 1862, mandati ad esplorare verso ovest terre non ancora mappate alla ricerca di nemici invisibili e di approdi altrettanto ignoti, sembrano reperti archeologici di civiltà dimenticate.
Pionieri senza niente di eroico, gente comune, sprovveduta, come tutti quelli che allora partivano per l’avventura del West, portandosi dietro miseria, speranza e tanta temerarietà, si aggiravano in uno spazio inquadrato in verticale che sembrava risucchiarli, di notte. Spariti i liberi e grandi spazi a cui il western ci aveva abituato, l’aria chiusa di chi è in trappola e così percepisce lo spazio, diceva Kelly Reichardt parlando di Meek’s Cutoff (2010), un film a cui torna il pensiero per quel mito della frontiera demitizzato, sfocato, guardato in controluce, dove si può morire di sete e non c’è pepita d’oro che valga un po’ d’acqua
I dannati si apre con lunghi secondi dedicati ad un branco di coyote che disfano a brandelli un cerbiatto steso a terra.
Nessun suono, solo quell’ululato prolungato in forma di lamento e il digrignare di mandibole affamate.
Uomini e bestie alle origini della specie, lotta per la sopravvivenza allo stato puro.
Fra le due, quella più evoluta va a cavallo e usa armi da fuoco.
Non lotta più solo per la sopravvivenza ma per l’onore, per la gloria, per diventare eroi, per servire la patria, per ubbidire alla volontà divina.
Riferimenti biblici spuntano qua e là, un padre ha portato con sé due figli adolescenti e prega, li indottrina, va avanti per un po’ finchè smette, “… cosa c’entra Dio con tutto questo?” dice qualcuno al ragazzo che trema di freddo, di fame, di disperazione.
Minervini crea una potente allegoria, non fiction né documentario, è un pensiero, uno sguardo sul pianeta Terra e i suoi abitanti, una triste istantanea su un mondo dove gli umani si danno da fare per trovare un senso che non c’è, e allora inventano armi, nemici, territori da conquistare, confini da allargare, civiltà da proteggere e divinità da pregare e a cui sacrificare.
Ma dove? Ma quali?
C’è il nulla, solo freddo, rocce, neve e, lontano da lì, deserto e mare dove affogare.
Dobbiamo superare quell’altura, seguire il corso del fiume fino alla fine.
Un ritornello, e vanno avanti, un gruppo si stacca e va in avanscoperta, sembra non esserci mai fine. Gli altri restano in un’attesa inutile, moriranno? Li perdiamo di vista.
E il nemico? Uno scontro a fuoco, l’unico, in un film di guerra senza la guerra, ma anche quello sembra sognato, esce da tutte le regole, solo secche fucilate assordanti e lampi di fuoco fra gli alberi. Uno si accuccia in posizione fetale in una nicchia fra le rocce, chi muore dove? e fra chi? Amici o nemici?
Un fiume passa di là, qualcuno si lava fra i brividi, cerca di smacchiare la logora camicia imbrattata di sangue, quello del bisonte ucciso o quello di qualche nemico abbattuto?
Il manipolo di uomini, neanche venti, man mano si restringe, i cavalli anche, ne resta uno legato con la cavezza al filo da cui nessuno lo scioglierà mai, e morirà lì, in piedi, davanti al padrone steso a terra cadavere.
Tableaux vivants collegati da esili fili, pochi discorsi, qualche speranza iniziale che si spegne come una candela. Un paio di sassi nel fiume sembrano contenere oro, ma i tempi non sono più quelli dei mitici cercatori, del western restano tracce polverose, ricordi di vecchi film girati in paesi di cartapesta dove passavano i Gringo di turno.
I dannati veri restano dannati, non si fermano, la condanna non ha tempo, scadenza o riscatto.
Quello scontro a fuoco li ha messi in fibrillazione per un po’, poi tutto è tornato all’attesa catatonica del nulla.
Volevo andare oltre la retorica della guerra, ho cercato di riscrivere questo genere, col metodo del cinema del reale ma in un ambito di finzione; avevo un rapporto dissonante, per la sovrastruttura morale e muscolare che guarda alla giusta causa, dove la vittoria trascende i morti.
Ne I dannati c’è un modello di umanità votato alla “giusta causa”, fino a quando qualche sopravvissuto capisce che tanto giusta poi non è, e se combatti il male con il male non fai che raddoppiarlo.
Fede, sogni di gloria, legàmi parentali o amicali sono evanescenti, il nocciolo duro è quella natura indifferente, una radura gelata, un fiume limaccioso, un bosco spettrale dove è giusto perdersi.
O il deserto, il mare in cui affogare, i campi da lavorare sotto il sole a picco.
Uomini senza nome, due secoli o due millenni fa, oggi, domani e certo anche dopodomani.
Dov’è la pace?
Il soldato in giubba blu e barba incolta alza lo sguardo al cielo. Chicchi gelati di neve cadono sul suo volto, lui esclama: Oh, qui c’è pace!
www.paoladigiuseppe.it
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