Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Venezia 81. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Poche settimane or sono ho visitato l'ecomuseo della Grande Guerra sul Monte Lozze da cui l'esercito italiano poteva gestire al meglio l'offensiva rivolta alle postazioni austriache sull'antistante Monte Ortigara. Rimangono i camminamenti a memoria di quel tempo di cui ammetto la mia scarsa conoscenza. Lassù una Madonna in pietra bianca guarda esterrefatta la colonna spezzata che sta sulle alture brulle dall'altra parte della valle e, per chi ci crede, sembra invochi una pace duratura per l'umanità che sotto i suoi piedi brulica tra le trincee, la chiesetta, il piccolo ossario e le postazioni d'artiglieria ancora intatte.
Conosco un po' l'Altipiano dei Sette Comuni, teatro di quella guerra sanguinosa che ancor oggi restituisce i corpi dei soldati sulla Marmolada. Il sacrario di Asiago è il centro malandato e bisognoso di consolidamento che ricorda più da vicino la guerra del '15-18 a cui l'Italia partecipò da par suo, come avrebbe fatto un ventennio più tardi, piuttosto impreparata e cinicamente opportunista.
Gianni Amelio torna a quegli anni intossicati dalla propaganda nazionalista per ricordarci che è salutare non abbassare la guardia. Sceglie, tuttavia, un punto di vista diverso dal solito, quello di alcuni operatori sanitari che lavorano nelle retrovie, in un ospedale militare.
In "Campo di battaglia" non ci sono combattimenti, fragorose esplosioni e carneficine. Solo letti d'ospedale e feriti che vi stazionano il tempo di morire o di essere rimandati al fronte a combattere "orgogliosamente" per la patria. C'è da conquistare Trento e tanto basta per far guarire i più restii a lasciare le coperte.
Secondo i medici più zelanti la guerra è l'antidoto alla pusillanimità. Gabriel Montesi è Stefano, uno di questi scrupolosi medici. Ricco e fanatico quanto basta. Federica Rosellini è Anna, un'infermiera meritevole di praticare la medicina. Nata donna si accontenta di servire la nazione nel ruolo che più si addiceva alle donne del tempo. Alessandro Borghi, infine, è Giulio, amico e compagno di studi di Stefano, che grazie alle conoscenze altolocate dell'amico è rimasto nelle retrovie ad adempiere il proprio dovere di ufficiale medico. Avrebbe preferito le provette e le culture in laboratorio ma si vede costretto ad accettare qualche compromesso pur di rimanere lontano dal fronte. Giulio non crede alle conquiste territoriali e nemmeno alla carneficina che ammazza i contadini italiani, non certo la boriosa intellighenzia che si nutre di proclami dietro tavole imbandite e letti caldi.
Le relazioni tra i tre protagonisti sono al centro del racconto anche se appare evidente, fin dall'inizio la volontà dell'autore di raccontare la guerra tramite i corpi feriti, gli occhi colmi di paura e le parole semplici dei soldati ricoverati nella struttura. I veri protagonisti della storia sono loro con le loro differenze culturali e i loro bisogni fisici e spirituali.
Ricordo di aver visto, anni addietro, un documentario che spiegava come il concetto di Italia rimase piuttosto astratto, se non incompiuto, per la maggior parte della penisola, fino allo scoppio della Grande Guerra. Solo allora gli uomini impegnati sul fronte dovettero ascoltare dialetti incomprensibili mai sentiti prima e fidarsi di sconosciuti che vivevano a migliaia di chilometri di distanza. L'Italia si costituì proprio allora con i rapporti intavolati dai soldati, uomini che molto spesso non avevano mai varcato i confini del proprio paesello e si vedevano catapultati, senza desiderarlo, nel freddo Settentrione, accomunati dalla volontà di sopravvivere alla guerra.
Chi ha letto "Storia di Tönle" di Mario Rigoni Stern, ambientato principalmente sull'Altipiano di Asiago lungo l'arco temporsle che andava dal 1865 fino alla fine del primo conflitto, ricorderà il buon vecchio Tönle Bintarn, poliglotta contrabbandiere giramondo, la sua diffidenza verso la guerra, l'estraneità ai dogmi che la rendevano necessaria e la fatica, nonostante il suo continuo vagabondaggio, a considerare compaesani coloro che usavano un idioma diverso dal suo, ovvero l'antico cimbro dei popoli dell'altipiano e della Lessinia. Tönle parlava il tedesco, il croato, l'ungherese e ben poche difficoltà gli causavano i dialetti delle valli vicine compreso quello strano linguaggio che i veneti adottavano giù in pianura. Ma le espressioni venete, l'intercalare dei croati o degli ungheresi erano pur sempre lontani dal suo semplice modo di vivere e sentire l'esistenza. L'Italia di allora era, dunque, piena di campanili e di lingue che ne minavano l'unità rendendo le aspirazioni e le prospettive indissolubilmente legate al piccolo orticello di casa. Fu la guerra ad unire i pastori sardi ai boscaioli dell'altipiano e paradossalmente fu la guerra a "costruire" il Paese dalle "macerie" del conflitto.
Ecco, a mio avviso, Gianni Amelio, attraverso i pazienti dell'ospedale, i soldati malati di spagnola, i civili ridotti in miseria, ricrea il clima di diffidenza dei campani, dei siculi, degli emiliani arruolati in una guerra incomprensibile, una guerra parlata in italiano da una nomenclatura elitaria indifferente alle necessità del volgo. Racconta le differenze culturali e linguistiche dell'Italia, lo scetticismo dei poveri nei confronti dei governanti, l'attaccamento alla propria terra piuttosto che all'ideale di patria. Per fare ciò il regista di Catanzaro non prende facili scorciatoie e rappresenta la "Babele" linguistica del Regno lasciando a ciascun soldato il proprio dialetto. Gli stessi protagonisti, benché istruiti si esprimono in un italiano stentato e legato alle inflessioni territoriali. Il film è senza dubbio aderente alla veridicità storica che si presume sia fondamentale qualora si voglia riprodurre una preciso contesto nel modo più scrupoloso. Per essere più obiettivo possibile Amelio fugge la tentazione di conferire alla crocerossina Anna poteri e competenze in corsia che sarebbero state fuori luogo. Le istanze femministe che tanto vanno di moda al cinema non mancano ma Amelio ha, fortunatamente, l'ardire di dipingere la giovane e talentuosa infermiera utilizzando una gradazione di grigi che rendono il suo personaggio in parte sgradevole. È proprio Anna la bussola di questa vicenda perché senza il suo gesto di denuncia il film non si sarebbe evoluto trasformando il proprio orientamento da antimilitarista a progressista.
Confinato in Folgaria all'interno di un forte alpino Giulio rinasce dalle proprie ceneri militari dedicando anima e corpo alla ricerca nella speranza di trovare una soluzione ad un'epidemia che sottrae alla vita milioni di persone e non solo soldati. Murato in un ricovero di soldati mascherati il personaggio interpretato da Borghi dimostra quel coraggio scambiato in precedenza per viltà mentre Anna smussa i propri angoli imparando dagli eventi una preziosa lezione di vita che la riporta, infine, tra i letti occupati dai civili e non più dai militari.
La seconda parte del film ci parla del presente e del passato prossimo. I cadaveri dei soldati ci rammentano la triste colonna di mezzi militari che nel 2020 trasportavano le vittime di un'altra epidemia. Le mascherine di cotone realmente utilizzate per contrastare il morbo spagnolo sono ancora nelle nostre borse e nelle nostre tasche. Il messaggio convogliato dal film è dunque lampante. Gettiamo le armi e mettiamo energie e risorse a disposizione della comunità per curare le persone perché il vero "campo di battaglia" non dovrebbe essere un forte distrutto od una città occupata bensì il tavolo di un laboratorio cosparso di provette, microscopi e capsule di Petri.
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