Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Un ottimo film sugli orrori della guerra. In particolare su un caso noto della prima guerra mondiale: l’autolesionismo dei soldati al fronte.
Soldati che qui vengono visti nel modo più adeguato: come vittime non tanto dei loro colleghi nemici, ma dei loro compatrioti, che li mandano al fronte senza alcun motivo valido.
Commuovente è la loro umanità, così semplice e così offesa, disprezzata. Disprezzata soprattutto da chi li usa, come le classi dirigenti borghesi, ricche e istruite: splendido è il ritratto della madre di un medico, che ferisce straordinariamente sua nuora, evocando passati disastri familiari, con una limitatezza umana penosa. Che infatti le fa dire: «Cosa ho fatto di male? Anzi, volevo farle sentire la mia compassione».
Fa da contraltare la stupidità del marito di lei, con il suo fanatismo bellicista, impregnato di vuoti - e disastrosi – valori, come il bellicismo e il patriottismo più becero. Patriottismo che infatti trova ampia soddisfazione nella stampa, che lui si fa leggere con gusto: tutta improntata alla classica disonestà intellettuale della propaganda, che è un grave problema non solo in tempi di guerra.
Ai cliché dell’autoritarismo borghese di chi è cresciuto a fine ‘800, si unisce anche la denigrazione della donna: la quale non può prendere il massimo dei voti, che pure meriterebbe all’università, per il solo fatto che è donna.
Per completare l’affresco sociologico, agghiacciante ma fedele, della società di un secolo fa – che probabilmente sarà ben tratteggiata dal libro “La sfida” di Patriarca che funge da soggetto -, va aggiunta la nota cattolica. Il prete impartisce l’estrema unzione, con evidente disumanità, a un soldato che è vittima soltanto delle follie delle punizioni eccessive dei generali, come quelle di Cadorna. Poi si segnalano le confessioni, assai verosimili, di due soldati conciati nei modi più terribili: «Se c’era Dio, non ci sarebbe stato questo macello»; «Mi hanno insegnato a pregare. Ma, per qual che ho visto, sarebbe stato meglio insegnarmi a bestemmiare».
La pazzia indotta dalla guerra, e l’autolesionismo come miglior modo per uscire dalla pazzia indotta dalla guerra, sono ben esibiti, proprio attraverso un realismo assolutamente credibile, che concede ben poco all’estetica.
La veridicità dell’impianto è avvalorata dall’eccellente ricorso ai dialetti: lingua in cui, per eccellenza, si esprimono i sentimenti e le emozioni, ciò che più conta – molto più che nelle lingue nazionali -. Ma anche lingue che non permettono una comprensione reciproca tra persone della stessa patria: questa è una realistica fotografia, fra l’altro, dell’arretratezza dell’unione tra italiani di allora.
Amelio non abusa di nessuna retorica. O meglio: mostra la retorica, criminale, dell’incoraggiamento al fronte, per la quale la prima guerra mondiale è tristemente e giustamente famosa, per colpa delle minoranze ricche. Ma non indulge affatto in facili beatificazioni dei poveri. La sceneggiatura ne mostra il dramma: ma anche l’indecenza di tanti che cercavano di approfittarsi delle situazioni più indegne, pur di sottrarsi a una sorte che, così facendo, infliggevano più amara ai loro commilitoni, che avevano il pregio di non essere così scorretti come loro.
Ottimo – per cercare una congiuntura che storicamente è stata tra le più disgraziate, e dunque tra le più interessanti da narrare - il riferimento alla febbre spagnola, che beffardamente si è aggiunta alla guerra nel rincarare una dose che già era tragica oltre l’immaginabile.
Ottime la recitazione, l’intreccio, la fotografia, le scenografie.
Eccellente il finale nel suo didascalismo: alla notizia della vittoria italiana, i soldati non festeggiano la vittoria italiana in sé. Festeggiano soprattutto la fine della guerra. Che hanno subìto, nelle più terribili conseguenze, per gli interessi di pochi ricchi, senza essersela affatto meritata.
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