Regia di Woody Allen vedi scheda film
Anche questo film di Woody Allen del 1990 è una bella delusione. Fra l'altro mi è sempre piaciuta poco anche Mia Farrow, che qui imperversa. E inoltre in questo film siamo alla rimasticatura di vecchie battute. Sembra di sentire le battute dei vecchi film di Allen ripetute dalla Farrow. Lo spunto di partenza è l'"Alice nel paese delle meraviglie" di Carroll, filtrato attraverso una situazione simile a quella della "Giulietta degli spiriti" (1965) felliniana. L'ambiente è quello dell'alta borghesia newyorkese (sai che novità...), dove si muove la protagonista, inserita in una situazione matrimoniale compenetrata di realismo magico. Le situazioni si susseguono in una sfilza irritante di sequenze déjà-vu, con pochissime situazioni e battute divertenti e con espedienti narrativi (l'ipnosi, il sogno, le varie polverine magiche) che denunciano una pochezza d'idee e perfino una scorrettezza artistica che lasciano senza parole in un simile autore. L'unica battuta divertente c'è quando Alice sogna di reincontrare il suo primo amore, morto in un incidente stradale, e gli domanda se sia stato a letto con molte donne, al che lui risponde «sì, ma tu sei l'unica che voleva farsi suora». E infatti Alice è perseguitata dai sensi di colpa instillatile ai tempi dell'educazione cattolica ricevuta dalle suore, tanto che alla fine della vicenda (che prevede che la mogliettina timorata abbia un flirt con un tizio conosciuto alla scuola delle figlie, con la successiva scoperta che anche il marito la tradiva), in un finale pressoché incomprensibile, sentirà la necessità di andare a Calcutta per aiutare Madre Teresa, anche se poi, chissà perché, preferirà trasferirsi in periferia per prendersi cura delle bambine (lavorare non se ne parla, non fosse mai).
L'unica sequenza veramente emozionante non l'ha girata Woody Allen, ma è quella che Alice e Doug vedono al cinema, con Madre Teresa tra i miserabili di Calcutta. Il resto è sfoggio di cappellini e abitini ben fotografati da Carlo Di Palma, autocitazioni del regista (alla fine le pseudoamiche dicono di Alice che «è proprio un'altra donna») e la solita sequela, ormai stucchevole, di brani jazz. Se è vero che ormai per Woody Allen il cinema ha una funzione terapeutica, che vada a curarsi in privato: vado io forse a fargli vedere le mie pasticche per la colite? Voto mio: 4.
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