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La vita da grandi

Regia di Greta Scarano vedi scheda film

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La recensione su La vita da grandi

di lamettrie
9 stelle

Splendido, soprattutto in quanto trascrizione di una storia vera, accaduta in Italia. Psicologicamente, una narrazione di primo livello.  

Simile forse a tante altre non assurte ancora agli onori della ribalta; ma comunque umanamente interessantissima, per i mille risvolti, tutti problematici se non drammatici, nel migliore dei casi.

Storia vera di un quarantenne autistico, a buon funzionamento (ha meritato anche la patente), di cui non si edulcora nulla:

-        il terrore, legittimo, nel ricordare quando veniva preso in giro – bullizzato, come si dice oggi – costantemente e nei modi più fastidiosi (ricordo che lo ha portato a una crisi di panico, che a propria volta lo ha portato al tentativo di suicidio – tentativo non nuovo per lui, peraltro);

-        la gioia in quei rari casi in cui, anche nascostamente, può essere sé stesso, e chiudersi – e aprirsi nel contempo, dato che lì si sente il meglio di sé stesso, e sta bene davvero! – nei suoi sogni, realisticamente irrealizzabili, di avere successo nella musica rap (irrealizzabilità che non può però cancellare la felicità di essere sé stesso semplicemente su un palco del karaoke, di periferia, e/o ballando, indipendentemente dalle possibilità future di successo, come lui fa);

-        il senso lucido di gran parte – non tutta, per via della patologia neurologica, incurabile e immeritata - della propria incapacità a far fronte alle sfide del reale: il che vuole dire la terribile accettazione di non poter vivere un amore corrisposto come tutti gli altri, così come di non poter avere figli, di non poter lavorare come tutti gli altri, trovando cioè nel lavoro una estrinsecazione gioiosa delle proprie capacità, estrinsecazione tale da rendere la propria vita più grata a sé stesso ed agli altri;

-        il bisogno di sentirsi utile, importante, comunque: come nella rivendicazione del proprio aiuto alla sorella minore normodotata (che, in quanto sorella minore, dovrebbe sottostare in buona parte alla tutela del fratello maggiore);

 

Ma qui assistiamo alla storia vera anche di tutti gli altri: che, in quanto familiari, sono coinvolti nella vicenda di avere un familiare disabile:

-        una madre – interpretata benissimo da Maria Amelia Monti -  che responsabilizza eccessivamente una figlia per essere aiutata nella gestione del figlio disabile; che non tollera una critica da una figlia che, in quanto figlia, non può che essere inferiore, a suo avviso – come capita sovente nelle relazioni, madre-figlia -;

-        un padre – ben interpretato da Paolo Hendel, proprio nel suo ruolo da comprimario, che però comprimario non lo è affatto, in quanto padre e marito (ma del resto è lui che non ha mai voluto interpretare in modo sufficientemente autorevole il ruolo che però si è scelto, di marito e padre);

-        della sorella – ottimamente interpretata dalla bella Matilda De Angelis - che è l’altra protagonista del film, non meno del fratello: si lamenta di essere stata sacrificata dai suoi genitori per i bisogni del figlio disabile (splendida una delle scene iniziali: lei torna a casa a Rimini dopo anni, e nessuno dei suoi familiari, come dice romanamente  lei, “se la caga”); ma non si possono negare i suoi atteggiamenti arroganti, assai fastidiosi dunque, che poi si smussano con l’andar del tempo – sia per doveri familiari-giuridici, sia per una propria necessità interiore di maggior felicità (la quale la porta ad assecondare le richieste, strane e nel contempo bellissime – e legittime -, del fratello).

 

I pregi del film - al di là di questi aspetti pedagogici e psicologici, innegabili – risiedono anche in altro, ugualmente di primo livello, sotto il profilo psicologico:

-        il fratello disabile disperato - ben intrerpretato da Yuri Tucci, autistico vero -, che trova una delle sue fonti, per scegliere di continuare a vivere, nel ricordo della sorellina che canta un brano semplicissimo, ma significativo come “Ci vuole orecchio” di Jannacci (infatti, nella meravigliosa resa, sotto ogni profilo, di questo pezzo nella improvvisazione al talent show con la Maionchi e Ozpetek, e altri - meravigliosa sia per la risposta degli autori del talent, sia dell’orchestra, sia del piano, sia dei fiati, sia delle percussioni, – lui invita la sorella, nell’imbarazzo generale, e la loro interpretazione è memorabile, esattamente come era trent’anni prima, nella loro cameretta!);

-        la duplice interpretazione possibile del titolo “La vita da grandi”: sia la vita dei disabili che non possono sopravvivere facilmente alla mancata assistenza dei loro genitori; sia la possibilità di vivere “da grandi” che è loro preclusa, se si pensa che il successo non può davvero arridere al pur volenteroso protagonista. 

Di cose serie in merito, ne ce sarebbe tante altre, da dire, su questo film. Ma a mio avviso, questa potrebbe spiccare, in quanto forse ne riassume ne l’intero senso: alla fine, l’abbraccio parzialmente mancato fra fratelli. Per la prima volta, forse, l’autistico vuole abbracciare la sorella: e non sa come fare, per impedimenti di tipo neurologico, che non gli si possono certo imputare, quindi. Infatti, lei vi si sottrae, come se si trattasse di un robot.

Ma la dinamica esistenziale che si è innescata – e non poteva essere altrimenti, anche solo biologicamente parlando, tra fratello e sorella – oramai si è innescata. Una dinamica di affetto: la più rilevante, nella vita.

Tutti recitano bene. La sceneggiatura è ottima nel galleggiare sulla leggerezza, senza mai derogare alla doverosa serietà del caso: permettendo, così, una fruizione accessibile a chiunque.  

Splendido l'uso dei colori: il verde - e, assieme, il rosa -, tra le scengrafie e i costumi. 

Ottime le ellissi: prima del furto, così come prima del tentato suicidio; il colpo di scena che preparano è ben predisposto.  

Un gran film: istruttivo. Assai umano. Intensamente commuovente.  

 

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