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Le ombre degli avi dimenticati

Regia di Sergej Paradzanov vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su Le ombre degli avi dimenticati

di Raffaele92
9 stelle

Mai vi sono state opera letteraria e cinematografica così vicine, così speculari: lo stile (che più che innovativo definirei rivoluzionario) di Parajanov è la risposta perfetta e assonante alla forma espressiva del romanzo, che è impossibile da spiegare e difficile da sintetizzare, a ragione della propria unicità.

“Le ombre degli avi dimenticati” è una sublime ballata folkloristica, un inno alle radici che ci legano a quel comune antenato che è la creazione (ma che comunque hanno qui una specifica “collocazione” geografica e culturale), uno slancio vitale fatto di pura poesia modellata su un racconto, ma pronta a scostarsi da (o, per meglio dire, ad elevarsi al di sopra di) esso per rincorrere e restituire in forma visiva le pieghe dell’anima e i flussi del sentimento.

La pellicola riesce a trasmettere quella spensierata vitalità che scaturisce dalle prime scoperte dell’infanzia, il rancore e l’avvilimento profondi che derivano dalla perdita, l’aleggiante quanto costante presagio della morte. Il tutto esasperando un imprescindibile distacco dalla realtà e dando così corpo a un viaggio sinfonico, onirico e delicatamente psichedelico.

In fondo si tratta di una disperata storia d’amore, ma sembra un documentario di costumi e tradizioni.

È frammentato, ma non nell’accezione deleteria del termine, perché segue una struttura episodica (come del resto tutti i film del regista).

È il prolungamento inarrivabile e irripetibile di quanto messo nero su bianco da Kocjubinskyj (nonostante l’armamentario demonologico insito nella cultura carpatica dei Huculi descritta dal libro venga in buona parte tralasciato), in grado di rifuggire completamente il rischio di derivazione dal proprio archetipo letterario per farsi poema lirico di visionarietà sconcertante.

Così, mentre l’immagine rifugge ogni concretezza e tangibilità, il suo divenire fluida ed eterea davanti ai nostri occhi è espediente che si fa portavoce di un inno alla libertà creativa, la cui sincerità risponde a certi canoni formali ai quali solo il cinema russo è, in passato, riuscito a dare forma. E questo perché, tenendo Eisenstein nella mente ma lontano dal cuore, la maestria e la maniera con le quali Parajanov muove la macchina da presa ricordano molto quelle proprie del Kalatozov di “Soy Cuba” (1964).

Certo, nonostante quanto detto finora, il regista rimane qui ancorato ad una base narrativa, ad un’idea di racconto, cosa che cesserà di fare del tutto da “Il colore del melograno” (1969) in avanti; senza che la presenza o meno di suddetto ancoraggio si riveli un limite o un surplus.

Elegia funerea e mistica, delirio grottesco e ascetico, emblematico sogno hippy, affascinante e pittoresco concentrato di usanze, trascendentale diario di un’esistenza: in qualunque modo lo si voglia vedere, la sensazione generale è quella di un caos estatico, quieto, costantemente libero di poter andare in ogni direzione e di squarciare i lunghi silenzi con suoni e rumori arcani, gelido ma profondamente rassicurante, nonostante il finale non possa definirsi propriamente happy (da sottolineare inoltre come quest’ultimo risulti – per fortuna – notevolmente edulcorato rispetto a quello disgustosamente grezzo del libro).

Capolavoro impossibile e dimenticato di un autore underground, che per chi scrive (così come per buona parte di quella schiera “colta e incallita” di cinefili che hanno avuto il privilegio di conoscerne la filmografia) è uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi.

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