Regia di François Truffaut vedi scheda film
L'amore è sempre stato il perno della ricerca di Truffaut nel corso della sua carriera cinematografica e oserei dire anche nel privato, date le sue storie travagliate quanto brevi con numerose attrici dei suoi film, di cui si innamorava, ma destinate a naufragare nel giro di breve tempo. Alla fine degli anni 70' il cineasta decide di dare un'evoluzione ulteriore alla sua poetica portandola su un piano immateriale; il ricordo dei vivi nei confronti dei morti, che altro non è che una variazione sul tema dell'amore malato che affligge i personaggi delle pellicole del regista francese. Dalla morte della defunta moglie, il giornalista Julien Davenne (Francois Truffaut) non si è dato pace dell'accaduto, decidendo di dedicare ogni secondo della propria vita al culto e al ricordo verso l'amata scomparsa, tramite l'ossessiva lotta contro l'oblio destinato ai morti dopo un pò di tempo trascorso dal loro funerale. Julien è un uomo disturbato, non ha mai superato il lutto, nè è stato capace di sfruttare l'accaduto come elemento di forza per puntare a vivere, la sua intera esistenza praticamente è ferma al giorno della morte dell'amata; ad accentuare l'ossessione del giornalista, si è messo di mezzo il recente conflitto mondiale, che lo ha esposto in prima persona con la morte e le immagini dilaniate dei soldati al fronte, di cui spesso scorre le immagini al proiettore con un certo gusto sadico nel descrivere particolarmente i dettagli della loro dipartita, tanto che ha sfruttato questa sua caratteristica come redattore di annunci funebri per il giornale locale. Questa sua ossessione, il totale riserbo per la sua vita privata e il suo carattere intollerante e poco incline a qualsiasi compromesso sul culto dei morti, gli hanno alienato le simpatie di molti, ad eccezione di Cecilia (Nathalie Baye), segretaria di una casa d'aste con cui ha stretto amicizia e sembra rispettare i morti, seppur in modo molto meno ossessivo rispetto all'uomo, poichè a differenza di quest'ultimo non disprezza affatto i vivi, perché indispensabili per dare un senso alla propria esistenza, che altrimenti non avrebbe alcun senso, essendo protratta al ritardo.
La Camera Verde (1978) è un film funereo, con un protagonista con cui è praticamente impossibile una qualsiasi empatia da parte dello spettatore, poichè è un mero morto che cammina, incapace di vivere il presente, nè concepire un possibile futuro, poichè la sua esistenza si è fermata 11 anni prima dell'inizio della storia, consacrando la sua esistenza ad un culto ossessivo e maniacale verso la defunta moglie, alla quale ha dedicato un'intera stanza tappezzata di foto, raccogliendo inoltre tutti gli oggetti che la riguardavano, creando di fatto un vero e proprio mausoleo, nel quale rintanarsi abbandonandosi ai ricordi del passato, lasciandosi andare a dei discorsi che in realtà sono dei monologhi esistenziali sull'affetto che nonostante gli anni trascorsi, oggi più che allora, lo tiene legato alla sua amata.
I primi piani della regia abbondano, le location sono poche e riguardano quasi sempre luoghi in cui è percepibile la presenza ossessiva dei defunti (cimiteri, lapidi, chiese, cripte etc...), ma qualcosa non funziona come dovrebbe, e non riguarda la psiche contorta ed intransigente di Julien, ma parliamo del suo interprete Francois Truffaut, che decide di interpretarlo lui stesso, con una scelta poco felice se non scellerata. Julien è la tipica figura maschile che popola la filmografia del regista; patetica e incostante, una figura praticamente sempre presente sullo schermo, dato che l'assunto di partenza non subisce significativi sviluppi tematici, nè le location o la regia vogliono esuberare da quella che è una storia intima e disperata, il paso del film dovrebbe essere retto sulle spalle del suo interprete, che purtroppo per presunzione oppure perchè sente la vicenda troppo vicina al proprio vissuto, non riesce a dare un gran spessore al personaggio di Julien, i cui tormenti sono portati in scena da un Truffaut fastidiosamente monoespressivo con quel suo sguardo perennemente corrucciato e dal tono di voce piattamente monocorde, sfociando in picchi di ridicolo involontario nel pathos finale dove lo spettatore potrebbe ritrovarsi a sorridere per la mediocrità con cui interpreta un uomo al tempo stesso devastato nelle convinzioni e corroso dalla malattia, specie poi quando come partner ha una Nathalie Baye, che con pochi tocchi espressivi e movimenti degli occhi riesce a regalare uno scandaglio psicologico notevole, nonostante il suo personaggio sullo schermo abbia uno screentime nettamente ridotto e soprattutto è scritto in modo molto più semplice.
Se quindi Truffaut voleva emulare grandiosi registi attori come Orson Welles, Charlie Chaplin, Takeshi Kitano o Clint Eastwood, bisogna riconoscere che ha fallito alla stragrande, non riuscendo mai come costoro a bilanciare la dualità tra regista ed attore (Truffaut non sa usare il minimalismo espressivo come Kitano e Eastwood, nè riesce a farsi titano del dolore come Welles), che con costoro si lega alla perfezione regalando opere uniche, mentre con Truffaut la sinergia tra le due anime si dimostra tragicamente debole, arrivando a danneggiare non poco il film, che avrebbe necessitato di un attore con la A maiuscola, capace di portare in scena l'animo devastato e lacerato di un uomo si disturbato, ma tremendamente triste e solo come Julien, osteggiato da tutti ed impossibilitato a lenire la propria sofferenza. Truffaut è sempre stato un regista diretto e materiale nel ritrarre l'amore, anche quando giocava su piani maggiormente letterati e simbolici come nelle Due Inglesi (1971), qui opta per un'inedita via trascendentale/spirituale che non padroneggia appieno nè come attore, nè forse come intellettuale, appoggiandosi spesso alle soluzioni compositive del suo direttore della fotografia Nestor Almendros, capace di donare all'opera quel flebile fuoco vitale, necessario per riscaldare ed illuminare le tenebre dell'oblio, regalando una suggestiva cripta ricolma delle candele che ognuna simboleggia il ricordo perpetuo di un defunto caro a Julien.
Pellicola fuori dagli schemi per il regista, non sempre adeguata nel tono e nel ritmo, falcidiata dalla recitazione mediocre di Truffaut che dopo tale disastro deciderà saggiamente di mettersi dietro la macchina da presa, il film venne malamente accolto dal pubblico all'epoca, mentre la critica europea lo amò non poco, ma in questo caso le reazioni miste dei critici americani danno un ritratto migliore di quello che è La Camera Verde, per gli altri interessati al culto dei morti consiglio la lettura Dei Sepolcri di Foscolo, capace di essere esaustivo, profondo, commovente ed incisivo sull'argomento, molto più di questa polpetta di Truffaut, che mostra un regista innamoratasi del soggetto di partenza, ma incapace di fare un film pienamente appagante.
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