Regia di François Truffaut vedi scheda film
La morte è un tema fondamentale nel cinema di François Truffuat sin dai tempi di Tirate sul pianista (e come dimenticare l’importanza della morte in Jules e Jim, La calda amante, La sposa in nero e, successivamente, ne La signora della porta accanto?). La vita senza la parti noiose, disse Hitchcock in un’intervista all’autore. Questa idea è diventata principio nel cinema di Truffaut, e, ovviamente, l’attimo della morte fa parte della vita, non delle parti noiose. Ma qui non c’è solo l’istante della dipartita, il decesso: c’è la memoria della morte (e dei morti), il vivere nel ricordo del morire, dell’aver visto morire il prossimo.
Per il protagonista della storia, la morte è un’ossessione (l’ossessione, dopotutto, è uno dei fil rouge del cinema truffautiano). Pur vivendo, l’idea della morte è l’inevitabile compagna delle sue azioni. Non c’è momento in cui egli non pensi a coloro che non ci sono più: è come se vi sia uno scollamento tra il mondo dei vivi (e dunque tra Jullien) e quello dei morti (raccolto tutto nella cappella popolata da una miriade di ritratti), una sorta di mancata affermazione del primato di uno o dell’altro universo. Ma perché Jullien si opprime con questa luttuosa ossessione? Perché vorrebbe cercare nell’altrove una ragione di vita.
Si sente importante solo per i morti, ritiene che i morti abbiano eletto lui a tramite tra i due spazi temporali – è anche vero che, ormai, non vive più: contornato da un bambino muto (qualche refuso nell’attore Truffaut dei tempi del pedagogico Ragazzo selvaggio) e una domestica silenziosa, assistito da lastre che proiettano immagini di guerra, inserito in un contesto casalingo buio e in un contesto naturalistico freddo e algido, immola l’esistenza alla memoria di chi non c’è più, ambendo ben presto a raggiungere l’altrove. Le mille fiamme che abitano la camera verde rischiano di essere addirittura più vive dello stesso Jullien, che, pur essendo il fautore di quelle candele, è al contempo vittima dipendente della morte e delle sue conseguenze e responsabile della protezione del ricordo.
Un film di difficile presa e comprensione eppure di una linearità sconcertante, luttuoso nella sua complessità spirituale e profondamente laica, funesto nella malinconia inesauribile del suo malato e febbrile protagonista, inquietante per la calibrazione perfetta di musiche e voci, suggestioni ed evocazioni. Non è un film d’atmosfera, e forse non è nemmeno un’atmosfera. Un film come una vita, senza parti noiose, in perfetto stile truffautiano e al contempo di una radicalità irreprensibile.
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