Regia di Spike Lee vedi scheda film
“Tu stai parlando di numeri, Gary. Duecento anni, trecento anni, non ha nessuna importanza! Ciò che importa, Gary, è la mentalità dello schiavo ed è contro questa che dobbiamo combattere! Avevo una zia, la chiamavamo sorella: zia-sorella andò sotto terra convinta che l'uomo non aveva mai camminato sul suolo della luna. Io avrei discusso con quella dolce vecchina, le avrei detto: «Si è visto in televisione!» e lei avrebbe detto: «Non mi interessa quello che si vede nella scatola idiota! Nessun uomo è andato sulla luna». Gary, sappi che ci sono milioni di negri in questa nazione con la sua stessa mentalità che ragionano esattamente come la mia zia-sorella. E sostengo che devono cambiare, noi ci dobbiamo adattare ai tempi altrimenti la società ci metterà da parte!”
Pierre Delacroix (Damon Wayans) è un autore televisivo dell'importante network CNS, afroamericano abbiente e colto, con tanto di laurea ad Harvard. In una riunione lavorativa emerge che gli ascolti stanno andando a picco, ragion per cui Delacroix, ritenuto il miglior autore della rete, è chiamato a colloquio privato nell'ufficio del vice-presidente Thomas Dunwitty (Michael Rapaport), megalomane yuppie che fa forte e paradossale uso dello slang nero: questi, demoliti i recenti progetti di Pierre, lo spinge a creare qualcosa che il pubblico voglia vedere per divertirsi, lasciando perdere i suoi tentativi di dar vita a personaggi afroamericani dignitosi e in carriera.
Esasperato dalle assurdità del mondo mediatico, Delacroix si gioca la carta del suicidio professionale con l'assistente Sloan (Jada Pinkett Smith), proponendo a Dunwitty una “riesumazione” dei vecchi minstrel show razzisti, col significativo e inaccettabile dettaglio che i protagonisti saranno proprio due neri sciocchi e ignoranti col volto dipinto ancor più scuro della carnagione naturale. A rivestire i ruoli dovranno essere gli artisti di strada Manray (Savion Glover) e Womack (Tommy Davidson), conoscenti di Pierre e bisognosi di soldi.
Sorprendentemente, un divertito Dunwitty sente profumo di successo e denaro (oltre che di polemiche) e accetta entusiasta di portare a termine il progetto; frattanto che Delacroix e Sloan discutono con molte frizioni sull'eticità di un'idea satirica ribaltata per fini di vacuo intrattenimento per le masse bianche, il programma “Mantan's New Millennium Minstrel Show” fa il botto, stuzzicando l'entusiasmo di molti e sollevando le ire di diversi afroamericani…
I minstrel show, forma d'intrattenimento musicale e comico nata nella seconda metà dell'Ottocento, erano appannaggio quasi esclusivo dei bianchi, dato che l'umorismo su cui i suddetti spettacoli si basavano giocava sugli stereotipi relativi agli afroamericani; nella generale mancanza, salvo poche eccezioni, di protagonisti di colore, gli attori si tingevano il viso di nero bruciando del sughero in alcol, che veniva poi ridotto in poltiglia applicabile. Si tingevano anche le labbra e i contorni con un rossetto rosso fuoco in modo tale da evidenziare in modo caricaturale le caratteristiche labbra dei neri.
“Bamboozled” di Spike Lee recupera questi show per farne il fulcro di una satira effettivamente molto grezza, ma di tanto in tanto efficace, almeno quando non scade in una retorica sterile, atavico difetto dell'ampolloso e vulcanico autore newyorkese.
“Bamboozled” stenta terribilmente a prendere il via, impantanato nella logorrea, negli stereotipi e persino nell'autocitazionismo; la premessa, dichiarata e subito palese, di assistere ad un'opera satirica non basta a giustificare una tale confusione negli intenti e nella forma. La forma, va detto, diventa eccezionale per brevi tratti, ovvero negli spezzoni girati in pellicola, quelli del minstrel show, ironicamente e di gran lunga le scene migliori del film.
Per il resto Lee ha deciso di lavorare con più telecamere a mano digitali (di fascia medio-bassa, peraltro) che hanno permesso di avere multiple inquadrature per ogni scena (mescolate a dir poco malamente in sede di montaggio), per poi conferire al tutto una fotografia televisiva che sa di provocazione. Da tale modus operandi è tuttavia conseguito un buon budget di 10 milioni di dollari, non ricompensato dagli incassi, che consisterono in appena un quarto del budget, un tonfo clamoroso dovuto anche alla distribuzione limitata della New Line Cinema.
Tornando agli accennati intenti, è chiaro come Spike Lee volesse da un lato ripercorrere come fossero visti i “negri” non troppi anni fa, dall'altro condannare la trasfigurazione che la televisione e i media possono operare sull'immagine di interi gruppi sociali e razziali. Un'ulteriore prospettiva viene aggiunta tramite i violenti membri della rap gang The Mau Maus, colma di soggetti modellati sull'afroamericano ottuso, chiuso nella propria comunità e incapace di reagire all'ingiustizia sociale attraverso mezzi appropriati. E finché si delineano, più o meno sovrapposte, queste riflessioni, il film si mantiene su buoni livelli e sembra andare in crescendo dopo il faticoso avvio, salvo però terminare con un'ultima abbondante mezz'ora disastrosa: persa fra sentimentalismo banale, digressioni morali e una conclusione scarsamente accettabile, è solo in parte salvata dallo scorrere di spezzoni di veri minstrel show e altri filmati di repertorio (compreso “La nascita di una nazione”), voce documentaristica che avrebbe meritato più spazio, magari al posto delle “satiriche” e sacrificabili frecciate a Cuba Gooding Jr. e allo stilista Tommy Hillfiger (imbarazzantemente parodiato in Timmi Hillnigger).
La drammatizzazione dell'opera, emergente soprattutto nella suddetta parte finale, pare una scelta azzardata in primis a livello tematico, nonché penalizzata da un doppiaggio modesto, posto che Damon Wayans resta comunque un attore mediocre per sostenere una parte così centrale e impegnativa. È più che discreto sul piano recitativo, invece, Savion Glover, tap-dancer fra i più famosi al mondo.
Grande importanza in “Bamboozled” è rivestita dall'hip-hop, nella colonna sonora ma anche in piccoli e rilevanti ruoli, come quello di Mos Def nei Mau Maus o della band The Roots, nativa di Philadelphia (ricordate il pezzo “The Seed (2.0)” con Cody ChesnuTT? Loro!).
“Bamboozled”, nonostante la sua natura ambiziosa non priva di connotati sperimentali, resta una delle filippiche più confuse del cineasta newyorkese.
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