Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
“Teatro in scatola” è l’accusa più comune rivolta a quei lavori teatrali trasposti sul grande schermo senza troppe modifiche. Il testo di Clifford Odets viene qui messo in scena filtrato attraverso la serrata sceneggiatura di James Poe e la dinamica regia di Robert Aldrich. Tutto avviene tra il soggiorno e il giardino della villa di una star hollywoodiana in crisi professionale (non sa se firmare il contratto che lo lega per altri anni ad un produttore tutt’altro che illuminato) e sentimentale (sta divorziando dalla moglie), ad eccezione di una rapida incursione negli studios: curioso per un film che parla della macchina-cinema più che del cinema in sé per sé in cui, tra l’altro, a parte qualche breve istante di un film del protagonista e alcuni registi citati come esempi da seguire (Kazan, Wyler, Kramer ed altri), non si vede niente e si potrebbe benissimo trattare anche di alta industria.
L’interesse sta nella rete delle relazioni (ogni personaggio dipende da qualcuno o da qualcosa e non si muove senza), nella descrizione ben poco occulta di un ambiente cinico e crudele (una cosa scontata, però) e negli improvvisi picchi di tensione determinati soprattutto da una sottolineatura dell’enfasi delle litigate. Aldrich dirige il traffico con grande mestiere regalando ad ogni attore spazi e tempi che ne esaltano le qualità: se Jack Palance e Ida Lupino sottraggono in nome della sobrietà, Rod Steiger va oltre le righe col suo gustoso ritrattino del malefico, freddo ed isterico produttore, Everett Sloan dà tutto se stesso nei panni del fedele agente e Shelley Winters lascia il segno in dieci minuti con la sua alcolizzata, povera vittima del sistema. Leone d’Argento a Venezia: oggi non glielo darebbero mai.
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