Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Pinocchio non è un brutto film: è un film sbagliato. Lo si potrebbe giudicare con una doppia e speculare prospettiva. Scritto da Benigni col fido Cerami, recupera l’idea di fedeltà tradita dall’adattamento più famoso del romanzo di Collodi (quello disneyano) pur con qualche licenza creativa (il tronco all’inizio, Geppetto malato, il cammino per diventare bambino vero, l’ombra che si dilunga nel finale) e con una scelta tranchant che dapprincipio si propone come discrimine tra chi ama e chi detesta il film: il cinquantenne attore-regista-sceneggiatore-produttore recita la parte di un ragazzino.
Dicono gli ammiratori: sarà anche fuori per età, ma ha spavalderia, spontaneità e naturalezza degne di un fanciullo, una vera marionetta su celluloide che restituisce tutta la sua prorompente vitalità al personaggio. Dicono i detrattori: il giullare s’imprigiona in un personaggio che non gli può più appartenere nonostante le qualità sopracitate, non sa perché non può trasmettere l’incanto della scoperta. La verità, forse, sta nel mezzo. Ci si spacca perfino sulla confezione, che qui è vera poetica: e forse, più che a Benigni, il film appartiene proprio a chi ha costruito la “macchina Pinocchio” scegliendo la via della messinscena spettacolare con evocazioni felliniane.
Pinocchio, va detto, appartiene soprattutto al genio di Danilo Donati, che firma qui l’ultimo lavoro della carriera (e il film è a lui dedicato). Se si può contestare l’ingombrate décor che occupa lo schermo assorbendo gli abitanti della scena, non si può certo discutere sull’efficacia estetica delle creazioni kolossal dell’artista toscano, che porta con sé il gusto fiabesco del suo committente più famoso (Fellini) e l’osservazione del reale (la scuola toscana tra Otto e Novecento). Il risultato si avvicina alle illustrazioni dei romanzi illustrati dedicati ai piccoli lettori.
E forse Pinocchio vuole essere un film per bambini, con le strizzate d’occhio inevitabili talvolta non presenti nei precedenti adattamenti (la carrozza guidata da Medoro, il tronco che si dimena nel paese, il gatto e la volpe resi eccessivamente buffoneschi finanche ebeti nonché mediocri dai Fichi d’India) e la cristallizzazione del percorso di formazione nel dilatato finale progressivamente consolatorio. O forse no, perché in realtà è o vorrebbe essere un film dell’orrore mascherato. Pinocchio è un film che non lascia spazio all’immaginazione, che non illumina né coinvolge lo spettatore e non gli comunica ciò di cui si vorrebbe far portatore, restando il freddo adattamento di un monumento letterario, parzialmente riscattato dal bellissimo finale.
Sulla lavorazione del film si sono scritti fiumi di parole e montate enormi polemiche d’ogni ordine e grado. Resta negli annali, però, il forfait di Lando Buzzanca che ha rinunciato ad essere Mangiafuoco per un peccato di vanagloria (pretendeva un posto d’onore nei crediti: fu scritturato Franco Javarone al suo posto), accusando inoltre Benigni di aver costruito il film in funzione della moglie. Al di là delle diatribe, Nicoletta Braschi non funziona come fata madrina perché viziata da un’interpretazione amorosa del personaggio da parte dell’autore. Meglio di tutti sono l’umanissimo Geppetto di Carlo Giuffré (che rimpiazza il compianto Turi Ferro) e lo sfaccettato Lucignolo di Kim Rossi Stuart, mentre sullo sfondo appaiono il cammeo di Corrado Pani (nell’ultima interpretazione al cinema, scelto al posto del dimissionario Aroldo Tieri) e Peppe Barra (un teatralissimo Grillo parlante).
L’ottima partitura musicale di Nicola Piovani conferisce il tono elegiaco faticosamente ricercato dal regista, soprattutto nel già citato finale, ma, come tutte le altre parti in gioco (Donati, Dante Spinotti, Simona Paggi, gli attori…), non riesce a raggiungere un’armonia che renda l’opera l’esperienza collettiva che dovrebbe essere un film così sfacciatamente ambizioso. Senza la magia, senza l’incanto, senza lo stupore, Pinocchio resta certamente lo spettacolo di talenti che agiscono individualmente, ma soprattutto l’irrisolto incontro del grande guitto che non riesce ad instaurare un vero dialogo col capolavoro.
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