Regia di Daniel Algrant vedi scheda film
Si respira una forte aria da cinema anni settanta in questo "People i know". E non solo, o meglio non tanto, perché sulle pareti dell'ufficio del protagonista campeggiano le locandine di due classici di quel periodo come "Il re dei giardini di Marvin" di Bob Rafelson e "Perché un assassino" di Alan J. Pakula. E' soprattutto il personaggio di Eli Wurman, cui dà anima e corpo un Al Pacino, ancora una volta straordinario, sebbene gran parte della critica abbia scritto che, lasciato a briglia sciolta dal polso debole del regista, gigioneggi a più non posso, a riportarci al periodo magico della New Hollywood. Il regista Daniel Algrant, fattosi le ossa con la serie "Sex and the city", pedina il suo stropicciato e sfatto protagonista Eli (con notevole autoironia, vedendosi allo specchio, si definisce il "cugino malato di Dracula il vampiro"), PR dal passato glorioso ora su un irreversibile viale del tramonto (il personaggio è ispirato a un vero e famoso press-agent newyorkese, Bobby Zarem), in una indaffaratissima giornata newyorkese, tra una prima teatrale da promuovere, un'importante serata da organizzare, un'attricetta scomoda da sistemare, perché ricatta il suo cliente più importante e facoltoso, un attore già premio Oscar che ora, peraltro, aspirando a diventare senatore, vorrebbe scaricare Eli con una lauta liquidazione. Ad alleviare le sue pene ed i suoi casini, la cognata Vicky, vedova del fratello suicida, dolce e premurosa nei confronti di Eli tanto da proporgli di seguirla nella pace campestre della Virginia (gli regala persino una copia di Huckleberry Finn di Mark Twain), via dalla pazza follia newyorkese. Ad interpretarla una luminosa e bellissima Kim Basinger, in una delle sue prove più intense e mature, nonostante la fugace brevità del ruolo. A forte rischio di manierismo, qua e là verboso e fumoso, anche prolisso, specie nella prima parte, con alcuni caratteri piuttosto convenzionali e con un risvolto giallo posticcio. Eppure "People i know" colpisce per il suo radicale pessimismo, per la malinconia struggente e dolente e la crepuscolare nostalgia delle atmosfere, per il cinico e amaro disincanto che lo pervade, per il senso di disfacimento e di spaesamento post 11 settembre, nonché di bruttura, di degrado morale e di bieco opportunismo che lo attraversa strisciante, per il girovagare stanco, ciondolante, affaticato ed anonimo di un Eli sempre più ombra di se stesso, per il finale disperato e doloroso (come per Carlito Brigante anche per Eli il sogno di una fuga con la donna amata è destinato a spezzarsi), per il suo essere fuori dal tempo (datato per i detrattori) e alieno ad ogni catalogazione, per la totale mancanza di fiducia e speranza in un mondo a pezzi, letteralmente allucinato, che va a rovescio (come ben esemplifica l'ultima immagine), dominato da (pre)potenti viziosi, arroganti, ipocriti, narcisisti e corrotti, politicanti di mestiere che badano unicamente al proprio tornaconto personale e alla propria autocompiaciuta immagine pubblica e divistica a base di conoscenze altolocate e relazioni di grido (la gente che conosco del titolo, appunto) a discapito di quei valori e principi di cui solo in apparenza e davanti al proprio elettorato si fanno lucidi e fieri portatori. Il fatto che il film sia prodotto da un democratico convinto come Robert Redford (altro volto simbolo dei settanta insieme al protagonista Pacino), da sempre attento a stimolare le nuove generazioni affinché si impegnino politicamente e seriamente nel sostegno dei propri ideali (qui l'unico giovane, l'assistente di Eli, preferisce abbandonare New York per la più vivibile Seattle), la dice lunga sul senso di rassegnazione, sconforto, impotenza e sconfitta che pervade il film. Viene da chiedersi allora se non abbia ragione Eli quando afferma: "La cosa peggiore di questo mondo è sapere troppo. L'ingenuità è un valore molto importante." Probabilmente non siamo ai livelli altissimi dei due gloriosi titoli sopra citati, ma "People i know", inizialmente distribuito solo in Italia (dalla CDI di Giovanni Di Clemente) e rifiutato negli States, forse perché troppo scomodo e troppo cupo, è da apprezzare per l'onesta lucidità di fondo e per un che di angosciante ed inquieto che rimane a fine visione, oltre che per l'accoppiata da Oscar Pacino/Basinger (sullo schermo il grande Al ha formato una coppia più esplosiva solo con la Michelle Pfeiffer di "Paura d'amare" e "Scarface" e la Ellen Barkin di "Seduzione pericolosa") ed un cast di contorno che annovera, tra gli altri, la brava e fascinosa Téa Leoni ed il redivivo ma efficacissimo Ryan O'Neal, imbolsito ed invecchiato e proprio per questo perfetto per il suo viscido ruolo. Con diversi dialoghi da appuntarsi ("La mia mamma diceva sempre: le buone maniere fanno buoni ricordi, quelle cattive pessimi adii!"), un'ottima fotografia (di Peter Deming, già collaboratore di Linch per "Strade perdute" e "Mulholland drive"), una buona dose di ironia distribuita in diverse battute taglienti e in alcune situazioni curiose (la sequenza di Eli sul lettino del dottore per l'esame delle urine, o il fatto che il protagonista, nonostante il suo lavoro, non abbia nemmeno un cellulare perché "fanno venire il cancro"). Scritto da Jon Robin Baitz. Per una volta Al Pacino non è doppiato da Giancarlo Giannini ma da Diego Reggente.
Voto: 7+
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