Regia di Mario Schifano vedi scheda film
Un film dadaista perchè distrugge il senso di tutto quello che incontra dimostrandone la sua insiginificanza. I discorsi sono dialoghi sovrapposti senza capo ne coda irricevibili per pura volontà di esserlo e non tanto per l'incapacità di chi deve ascoltare. La cacofonia del film mi riporta ( non so dire precisamente perchè) ai dibattiti politici di oggi divisi tra l'ipocrisia moralistica della sinistra e la mancanza totale di dignità personale della destra. Il risultato appare infatti inascoltabile, la società dello spettacolo può mostrare il suo vero volto, ovvero la insopportabile successione di informazioni, suoni e rumori umani che alla fine ti lasciano più stupido e cattivo di prima. Il regista pedina l'artista Franco Brocani tra lande desolate, manifestazioni politiche e interviste senza domande. La morte del titolo è alla fine l'accettazione che le cose che ci circondano lentamente ci corrodano senza toccarci veramente, dove due ragazzi possono discutere di anarchia e comunismo senza arrivare ad una conclusione, dove si può attraversare una manifestazione senza essere visto, dove le nostre mani possono diventare artistiche senza volerlo. Quello che resta è un senso di vuoto, mancanza di qualcosa che ci possa guidare, di un discorso che ci possa effettivamente spiegare perchè le risposte più semplici, più dirette, pù umane cè le da un ciclista di quegli anni anche se abbiamo troppa puzza sotto il naso per fargli veramente delle domande. Nel 1969 la società è spettacolo, la vita è arte perchè ha raggiunto livelli di nichilismo, di caoticità, di irrazionalità e di bruttezza da cui non si torna più indietro.
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