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Moderato cantabile

Regia di Peter Brook vedi scheda film

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La recensione su Moderato cantabile

di (spopola) 1726792
6 stelle

Un uomo e una donna si scoprono vivendo insieme, accettando di amarsi, di stare insieme sbranandosi l’uno con l’altra tutti i giorni. E’ un dramma sconosciuto che li ha fatti incontrare ma i due si lasceranno poi senza averlo risolto, senza che succeda niente, ed è questo il problema pechè non succede niente nemmeno fra lo schermo e lo spettatore

“Moderato cantabile” (incluso nella raccolta “I Cavalli di Tarquinia”) aveva già ‘sfiorato’ l’ipotesi di una possibile trasposizione cinematografica nei primi contatti intercorsi fra la Duras, autrice del racconto, e Alain Resnais, che sfociarono poi più proficuamente nella folgorante combinazione letterario-cinematografica di quel capolavoro assoluto che è “Hiroshima mon amour” (senza la virgola, mi raccomando!!! Perché questo è il titolo esatto, nonostante Film tv). Ma la storia (o meglio la “non” storia) era troppo in sintonia con le tendenze alla moda del momento, così intimamente collidente con molte delle tematiche elette quale paradigma espressivo dalla corrente della Nouvelle Vague per essere davvero accantonata e disattesa senza risvegliare ulteriori appetiti. Ed ecco che allora, con un solo anno di distanza e proprio sulla scia dell’eco del successo della pellicola di Resnais che aveva contribuito a dare una visibilità davvero internazionale, sicuramente molto più ampia e ramificata, anche alla scrittrice, strappandola a quel ristretto consenso “di nicchia” che era riuscita a ritagliarsi fino a quel momento, il progetto prese forma concreta, grazie a una co-produzione Italo/francese. L’adattamento fu ovviamente affidato alla Duras stessa, che si avvalse, nella stesura dei dialoghi, della collaborazione di Gerard Jarlot, mentre la regia fu inopinatamente assegnata a uno splendido “animale” di teatro: Peter Brook (marginalemte impegnato anche nella supervisione dello script) che presentava al suo attivo regie sul palcoscenicoi impegnative, pregnanti e spesso fortemente innovative, ma che oggettivamente poco aveva da spartire con le tematiche del racconto dal quale era probabilmente agli antipodi anche per quanto riguarda la “sintassi narrativa”. Non era ovviamente al suo esordio sul grande schermo (ma si era cimentato fino a quel momento solo in un riuscito e divertente adattamento dall’”Opera dei mendicati” di John Gay dal titolo “Il masnadiero” con Laurence Oliver).”Moderato cantabile” rappresentava quindi a tutti gli effetti la prima (e quasi unica) prova al di fuori di un contesto realizzativo derivante da opere teatrali preesistenti. Seguirà solo “Il signore delle mosche” - ancora da un’opera letteraria, questa volta il romanzo di Golding – ambizioso, ma ugualmente non perfettamente “centrato” apologo che sconfessa e disattende il mito del buon selvaggio, mostrando invece il lato oscuro dell’animo umano. Poi sempre e solo “adattamenti” di sue regie teatrali (le più interessanti e riuscite prove anche sul grande schermo, dallo sconvolgente “Marat/Sade” del ’67, al più classicheggiante Re Lear, dalla “Tragedia di Carmen” ripresa dal Teatro delle Buffes du Nord di Parigi, fortunosamente intercettata in una delle 3 versioni realizzate e filmate con cast diversi, in una tarda serata primaverile di molti anni fa, spippolando sul telecomando quando ancora Antenne 2 era perfettamente visibile in Italia, al “Mahabharata” – versione lunga – che rimane indubbiamente la sua opera più personale e riuscita, raffinata e barbarica, capace di restituire quasi interamente le emozioni di chi, come me, aveva avuto anche il privilegio di assistere dal vivo sulla scena a quel capolavoro di creatività inventiva e poetica). Perché questa lunga premessa? Solo per evidenziare l’assoluta estraneità – causa prima della discrepanza dei risultati - del regista con il progetto e le tematiche della scrittrice, quest’ultima ancora una volta alle prese con un soggetto indefinito e astratto, zeppo di fastidiosi simbolismi ed estremizzanti rarefazioni letterarie (qui non più mediate e reinventate dal talento visivo di Resnais come in Hiroshima) e per comprendere così meglio le ragioni, nonostante l’impegno profuso, del sostanziale “fallimento” della pellicola, comunque oggettivamente meno “brutta” di quanto potrebbe risultare a prima vista, ma pur sempre bollata alla sua uscita come uno dei film più noiosi della storia del cinema. E’ ancora una volta un film sull’amore, sull’inconsistenza dei rapporti, sulla casualità dei sentimenti, fatto soprattutto di silenzi e di allusioni, “intellettualistico” e prolisso nello svolgimento da risultare spesso catatonico. E’ il ritmo stesso a rendere evidente la dissonanza, per altro non personalissimo né sufficientemente stilizzato, ma di derivazione esterna oggettivamente avvertibile, quasi una lezione studiata con maniacale attenzione, ma non sufficientemente digerita e metabolizzata (non solo i vezzi più esteriori di alcune opere marginali della Nouvelle Vague, ma anche il primo Antonioni, e forse per certi versi soprattutto – probabilmente per alcune affinità formative – l’insolito Visconti delle “Notti Bianche)”. E’ difficilissimo raccontare la noia senza essere noiosi si disse all’epoca, e lo stile piatto imposto all’andamento, “moderato” ma davvero poco “cantabile” non aiuta certo a rendere scorrevole la visione di una storia che non presenta guizzi nemmeno nella struttura narrativa (la moglie di un industriale, ossessionata dall’omicidio di una ragazza, torna fra le strade che sono state scenario della tragedia, incontra e si confronta con un altro testimone, che è anche operaio in una delle industrie del marito, del quale quasi si innamora – o crede di farlo – ma senza concreti e positivi esiti finali). Ma singolarmente pur essendo l’amore il tema dominante, è proprio questo sentimento a risultare in qualche modo “assente”. L’impostazione della Duras, troppo letteraria, indefinita, astratta per rendere davvero palpabile questa palpitazione, si scontra poi ed entra in rotta di collisione con la visione opposta di Brook: per lui l’amore è semplicemente uno sguardo, una stretta di mano, un tintinnio di bicchieri, elementi oltremodo labili per emergere e coinvolgere in questo contesto di astrazione, perchè il “breve incontro” avrebbe bisogno all’opposto di “sangue” per vivere e coinvolgere. Così invece non riesce a calarsi in una realtà evidente e tangibile e ad acquistare dimensioni autenticamente e profondamente umane, ma resta in sottofondo pallidamente smorto ed esangue. Niente è cambiato perché nulla poteva cambiare (ma qui non esiste nemmeno la coscienza dell’impossibilità di infrangere certe regole di vita, a causa dei doveri imposti o per la paura di nuocere agli altri e creare dolore). Ecco allora l’atmosfera rarefatta e raffinata che si estenua in interminabili passeggiate (analoghe, ma meno significative di quelle che la stessa Moreau compirà per Antonioni ne “La Notte”) che tendono qui semplicemente ad evidenziare gli stati d’animo inconciliabili di due personaggi dissimili appartenenti a mondi diametralmente opposti e difficilmente conciliabili fra loro. L’impianto visivo è tutto sommato affascinante, seppure estremamente formale: nitide le immagini (quasi trasparenti e aeree), sottili i formalismi estetizzanti, tutti elementi comunque da soli non bastanti a salvare almeno in parte un compromesso equilibrio, nonostante i tentativi avvertiti in alcuni momenti di voler spingere il pedale verso una più “melodrammatica” esternazione che si traduca anche in “violenza” visiva. Ma sono accelerate timide che subito rientrano, non sufficienti ad infrangere e superare i limiti, turbare davvero l’ordine e gli equilibri, modificare i rapporti e il contesto circostante: tutto rimarrà immutabile e immutato senza cambiamenti o stimoli che nemmeno le urla (quello della donna uccisa all’inizio del film, quello della protagonista nel finale) riusciranno a scalfire. Troppo poco insomma per essere soddisfatti ed appagati da questo dramma individuale che non riesce ad universalizzarsi, trattato con troppa evasiva estraneità (evidente e tangibile) dalla differente sensibilità, rispetto alla storia, del regista. Rimangono gli attori (o meglio l’attrice): la bravissima, stupefacente Jeanne Moreau, musa insostituibile di un periodo e di una corrente, capace di restituire le pieghe più intime delle contraddizioni interne ed esterne di ogni personaggio affidatole e che riesce a fare di Anna un capolavoro introspettivo perfettamente tridimensionale, interpretazione che le valse anche un meritatissimo premio. L’altro elemento contrapposto (Jean-Paul Belmondo, adorabilissima e strafottente canaglia) risulta qui quasi estraneo al contesto, svagato e fuori sintonia, anch’esso un corpo staccato e non amalgamato, una ulteriore pedina fuori ruolo che inficia il risultato di una impalcatura che avrebbe invece avuto bisogno di un equilibrio perfetto fra tutte le componenti senza tasselli “impazziti” per poter approdare a qualche significativo risultato di coinvolgimento emotivo.

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