Regia di Mati Diop vedi scheda film
Tornare in Africa
Parigi 2021. Ventisei reperti museali stanno per lasciare la Francia dopo una cattività di 130 anni.
Sono statue e manufatti di pregevole fattura razziati dai colonialisti francesi nel 1892 nel regno di Daohmey e oggi, con decreto Macron, restituiti allo Stato diventato il Benin.
Mati Diop e il suo Dahomay,Orso d’Oro a Berlino e in corsa come Miglior Film e Miglior Documentario agli EFA 2024, apre con la catalogazione delle opere e delle casse che le trasportano sulla nave, i dettagli ‘anatomici’ di alcune parti, lo stato di conservazione.
L’ambiente è asettico e la macchina scorre lungo i corridoi del Museo di Branly a Parigi.
Il mare notturno si muove appena, brillano le luci del porto ma subito la luce scompare,
lo schermo resta buio a lungo, qualcuno sta parlando all'interno di una cassa di legno.
"È così buio qui dentro... una notte così profonda e opaca". I reperti si animano, saranno loro a parlare quando tutto tace e la luce esterna scompare.
E’ questa la fine del mio viaggio? E’ tutto così strano, così diverso da quello che avevo visto in sogno. Mi gira la testa, mi arrendo a questa carezza tropicale, all’odore dell’infanzia, una strada tutta mia Non mi aspettavo di rivedere la luce del giorno.
Fiori, vegetazione lussureggiante dei tropici, una fastosa celebrazione aspetta questi antichi abitanti che, uno alla volta, escono dalle casse. I politici di turno parlano, raccontano, auspicano.
Il futuro vedrà tempi migliori, ne sono sicuri.
Solo 26 dei 7000 pezzi trafugati è molto poco, ma non è nulla. Il valore simbolico è alto e questo documentario di poco più di un’ora, compatto, avvincente, fantasioso e snello ma dettagliato e capace di evocare ampi scenari storico-politici, va molto oltre il giusto orgoglio di un popolo che si riappropria dei suoi tesori.
L’Europa coloniale dell’’800 e quella dei dittatori del ‘900 brillò nella pratica di spoliazione di tesori altrui, e questo avvenne anche a spese dell’Africa.
Il regno di Dahomey, oggi Repubblica del Benin, ha una storia antichissima alle spalle, non sempre bella, molte furono le collusioni con chi praticava la tratta degli schiavi.
Oggi ha un’identità nuova che i tesori del passato sembrano consacrare e si accende un dibattito nell'Università di Abomey-Calavi.
I giovani sono cresciuti con i miti dei paesi coloniali, con Disney e Tom e Jerry, ignari del loro patrimonio culturale e soprattutto senza sapere che era all’estero.
L’evento museale travalica il suo significato immediato per far nascere riflessioni sull'oppressione della classe operaia e i bassi salari che sono nemici dell'arte e della cultura, sulla valutazione del periodo coloniale e la valenza di questa restituzione.
I Musei sono luoghi di celebrazione coloniale o la loro importanza è nella giusta prospettiva di agenzie culturali aperte al popolo?
I pareri discordano, le domande sono impellenti: cosa significa parlare dell'anima di una nazione? Che ruolo giocano le opere d’arte nell’identità di un paese? I musei sono ancora importanti in questo processo?
I giovani sono consapevoli più di quanto si creda, dai loro interventi emerge la volontà forte di riappropriarsi di quello che la colonizzazione ha tolto, a partire dalla lingua, tradizioni, tesori che neppure sapevano di avere.
Non è giusto avere solo ventisei pezzi delle migliaia trafugate, non è giusto essere privati di un’identità sconosciuta, non è giusto essere privati di ogni possibilità di eccellere.
E ora che questi pezzi ci sono, potranno andare tutti a vederli? I bambini poveri dei villaggi isolati come potranno? Ci hanno sempre detto che discendiamo dagli schiavi. Ma io discendo dalle Amazzoni e ne sono fiera! grida una ragazza.
C’è chi racconta di aver pianto di fronte a quelle statue che tornano in Africa.
Tornare in Africa.
E’ il sogno impossibile di migliaia di fuggiaschi che, se non riposano in fondo al mare, vagano per un’Europa che non sa cosa farsene di loro o non vuole.
Le Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta nel 2006 inventarono un miracolo, il ritorno di Assane,clandestino senegalese protagonista di vicende durissime di violenza e rifiuto dopo il suo approdo in Italia, che torna in patria dalla madre e dal vecchio prof. di Storia e Filosofia dell’Università di Dakar e racconta la sua esperienza ai ragazzi della scuola del villaggio.
“… forse dovrete partire anche voi – dice il vecchio prof - e l’esperienza raccontata da Assane vi ha detto che non sarà facile. Se tornerete, però, potrete lavorare per il vostro popolo che ne ha bisogno”.
Utopia?
Oggi una donna, la regista franco-senegalese Mati Diop, parla di un ritorno vero e vince l’Orso d’Oro alla Berlinale.
Le luci della sala si spengono, i pezzi nelle bacheche sono avvolti dal buio, all’esterno il mare e la notte.
Le statue riprendono a parlare:
L’Atlantico, le rive della ferita. Che la luce vi inghiotta.
Un uomo cammina lento nella spiaggia solitaria:
Non mi fermerò più ad ogni incrocio dove la mia umanità viene messa alla prova, non rimuginerò più sulla mia prigionia nelle caverne del mondo civilizzato, non mi fermerò mai, non me ne sono mai andato. Sono qui. Non dimentico. Non c’è niente da riparare. Ci sono i sogni del continente, il percorso che ci chiama fino al termine ultimo. Sono il volto della metamorfosi, mi rispecchio perfettamente in voi. 26 non esiste, in me risuona l’infinito. Cammino, non mi fermerò mai.
www.paoladigiuseppe.it
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