Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Giovane e bello, Valerio fa il cameriere ma con scarse prospettive professionali nella desolazione sociale ed economica dell'hinterland partenopeo. Inizia così a frequentare il laboratorio artigiano di Peppino, abile e mellifluo imbalsamatore di animali che intrattiene oscuri legami con la camorra ed i suoi traffici di droga e che mostra per il ragazzo un morboso interesse sentimentale e sessuale. Quando Valerio si innamora,ricambiato, di una ragazza conosciuta in seguito ad una breve trasferta cremonese, Peppino inizia a mostrare i segni di una livorosa ed allarmante gelosia. Finale tragico.
Dope le storie di emarginazione e di disagio nella soffocante calura di un'ambientazione romana dei suoi primi tre lungometraggi, Garrone si sposta in una terra di nessuno altrettanto indefinita e paradigmatica (quella napoletana) in cui ambientare le malsane pulsioni che si generano da una promiscuità sociale ed etica figlie della solidudine e dell'aberrazione umane; le contorte ramificazioni di una pianta malata che si sviluppa dai recessi putrescenti di un indicibile e sotterraneo compromesso con il male. Puntando sullo sguardo obliquo nella descrizione di una realtà di edulcorazioni cromatiche e sonore, l'autore insinua il sospetto di una degenerazione dei rapporti umani che finisce per corrompere, con le inquietanti sirene del denaro e della lussuria anche le più candide e sincere aspirazioni al progresso sociale, laddove contrappone all'ingenua fiducia nel futuro di un ragazzo giovane e bello le sinistre mire di un inquietante e fiabesco 'pifferaio magico' che ha le lombrosiane fattezze del nano Peppino, essere 'curtu e malucavato' che lo stigma popolare associa inevitabilmente alla quintessenza di una perversione fisiognomica tra pregiudizio ed infelicità sociale (vedere per credere 'L'Amico di famiglia' di P.Sorrentino qualche anno dopo). Benchè il piano metaforico del racconto sia rilevante, Garrone riesce a mantenere la materia narrativa sul livello di un credibile realismo psicologico, trasfigurando l'inevitabile sottotesto simbolico negli elementi riconoscibili del dramma sociale; una sorta di personalissimo noir in salsa nostrana che precipita, con giudiziosa misura, nelle inevitabili conseguenze di un finale grottesco e amaro, affondando, con l'automobile dove giace il corpo inanimato di Peppino, le ultime tracce di una coscienza ormai definitivamente compromessa, di una innocenza irrimediabilmente perduta.
Nello squallore sociale di un paesaggio di opprimente grigiore (bellissima la fotografia di Marco Onorato) giganteggia la figura minuscola e irridente di uno straordinario e scafato teatrante come Ernesto Mahieux nel ruolo del nano Peppino, mentore e corruttore insieme di una giovinezza che ha il candore ingenuo dell'esordiente Valerio Foglia Manzillo. Tra David di Donatello,Nastri d'argento e Globi d'oro solo menzioni nostrane per una pellicola che avrebbe meritato ben altri riconoscimenti internazionali.
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