Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
E' un film disturbante, "L'imbalsamatore". Lo è nella misura in cui destabilizza le certezza delle spettatore, rivisitando, sovvertendo rimescolando elementi distanti, antitetici eppure vicinissimi: l'amore che è sadismo e repulsione, la pietà come cattiveria, la carità che si fa richiesta, il sesso mercificato e mercificante, ricatto ed attrazione a tratti accettata, a volte negata. La narrazione serrata in una ellissi lunga 101 minuti, sospensione irreale nell'attesa del nulla. O meglio, dell'ovvio. Dell' unica possibile fine. Fine di una parentesi, non probabilmente della parabola in costante discesa nel vuoto dei protagonisti.
Peppino vive nella morte, attorniato ed attraversato da essa. Nel suo laboratorio, solo, silenzioso, crea piccoli capolavori rendendo immortali corpi che naturalmente ritornerebbero polvere. Non c'è nulla di poetico in tutto questo: piuttosto un ideale morboso e distorto di bellezza. Un infinito canto del cigno, come quello nella sua camera da letto. Solo che il cigno ha le sembianze di un brutto anattrocolo rimasto tale. E' un emarginato, Peppino. Lo è perchè nano, lo è perchè imbalsamato come i suoi animali in un mondo senza anima. Dove il mare è grigio e piatto, sempre uguale. La spiaggia una discarica a cielo aperto, il paesaggio naturale una piana arida e quello urbano una fila ininterrotta di palazzoni fatiscenti. Per svago, per lavoro (in lui i due elementi coincidono) si reca di tanto in tanto allo zoo. Lì, davanti alla gabbia degli avvoltoi, incontra Valerio. La cui bellezza inespressiva, il vuoto negli occhi, corrispondono a quell'ideale deformato che Peppino, da sempre, insegue. Nasce una sorta di amicizia fra i due, e di seguito una collaborazione: il tassidermista impiega il giovane come aiutante nel proprio laboratorio. Di lì a breve, eventi casuali convincono Valerio a trasferirsi a casa di Peppino: la soddisfazione è reciproca, in un crescendo di scorribande sessuali, regalini, passeggiate fuori porta. Il rapporto fra i due diventa sempre più profondo, addirittura simbiotico. Chiamato a svolgere un remunerativo servizio per la malavita locale, l'imbalsamatore porta con sè al nord il ragazzo. Dove incontra Debora: una bellezza di plastica, senza meta e senza origine, che li segue in Campania. L'equilibrio fra i due uomini è spezzato: la ragazza si frappone fra i due: a tratti desiderata, a tratti respinta. Una relazione più sessuale che sentimentale, neppure esclusiva, lega lei e Valerio: ma Peppino si cerca di intromettere, geloso. Non si capisce bene verso chi. La pulsione "omofila" è tanto evidente quanto latente ed ambigua: forse, semplicemente, l'uomo cerca di riconquistare l'unica persona che abbia mai dimostrato, se non affetto, quanto meno muta riconoscenza verso di lui. Il ruolo di carnefine e vittima è continuamente rimescolato: perchè Valerio, povero, ignorante e meschino eppure piacente è l'oggetto del desiderio di Peppino, deforme e benestante. Ma Peppino, viscido e violento ammaliatore soggiogato, conferisce a Valerio un ruolo predominante all'interno della loro relazione, che il giovane dimostra di sapere ben interpretare e sfruttare. Strattonato da Debora, scontratasi aspramente con l'imbalsamatore, Valerio alfine abbandona l'amico trasferendosi a Cremona. Il dolore della perdita spingerà Peppino oltre ogni limite, verso un epilogo tanto tragico quanto scontato.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca, Garrone riesce a costruire un film più d'atmosfera che di narrazione: la trama è scarna e prima di eventi, ma sostenuta, con pathos, dalla interpretazione incisiva di Ernesto Mahieux. Il quale riesce, soprattutto nella minica facciale, a caricare il personaggio di Peppino di mille sfumature: dalla perversione alla tenerezza, dalla compassione al sadismo, dalla repulsione al fascino. Azzeccata la scelta di insistere sui primi piani, addirittura sui primissimi piani. Come quello, quasi alla fine del film, su Mahieux-Peppino che al ristorante ammalia il proprio interlocutore con racconti di favolosi viaggi: lo spettatore è attratto in un vortice di disturbante incanto dal viso rugoso, la dentatura affollata e sconnessa, dallo sguardo ammiccante, sornione eppure aggressivo, invadente. Questa fotografia "soggettiva" è correttamente accompagnata, quasi sempre, dal silenzio. Come il volto inutile di Valerio davanti alla mucca (o bue? non ricordo bene): musica o rumori distoglierebbero dalla delineazione del personaggio, indirizzerebbero con più vigore l'interpretazione. Che, a dirla tutta, è netta, solo, "discreta". I toni sono opachi, prevale il grigio metallico sia per gli interni che per gli esterni: del cielo, della nebbia, della campagna, del mare: la geografia è sospesa in un non-luogo. Come a dare universalità ad una storia solo apparentemente marginale, ma che invece è tanto più complessa e profonda, in quanto riesce a toccare e eviscerare l'essenza stessa dell'animo umano, imbalsamandolo in un presente eterno, statico e disturbante. Valerio Foglia Manzillo se la cava, ma senza picchi di qualità. Il montaggio opta per scelte semplici e dirette, senza fronzoli o virtuosismi. Veramente un buon lavoro, quello di Garrone. Nei contenuti, e nella forma. Avrebbe potuto addirittura rasentare l'eccellenza, se non fosse per alcuni nei: Elisabetta Rocchetti, modestissima. Un eccesso di lentezza e qualche caduta di stile coincidente con sbavature di sceneggiatura (il rapporto con la malavita; le macchiette dei camorristi). Ma soprattutto, soprattutto, una ingenuità linguistica irritante. Come una cremonese possa avere un accento romano, non è dato sapersi! Errore veniale? Forse. Ma pesante e concettuale quello di ricadere, o meglio sprofondare, nel buco nero del dialetto. Non solo pregiudicando la semplice comprensione ad una grossa fetta di pubblico (senza sottotitoli, come fare?) ma negando, nella sostanza, quella stessa universalità sopra citata. "L'imbalsamatore" è il racconto modernissimo di una umanità dolente, affogata nella bruttura. Solo il caso avrebbe dovuto collocare quest'ultima su un livido litorale inquinato al limite estremo di una "terra dei fuochi": ed invece, proprio quel dialetto, lungi dall'essere emblema di "realisticità" rieccheggia di particolarismo inappropriato e banalità.
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