Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Credo di aver perso il conto delle volte in cui ho visto questo titolo di Matteo Garrone. Splendido e al contempo sinistro come poche altre pellicole sanno fare, L'imbalsamatore è un thriller/noir che sa catturare l'attenzione del pubblico fin dalle prime scene, ponendo in campo una trama lineare quanto efficace, ben diretta e sceneggiata. Il resto, viene consegnato nelle sapienti mani del cast attoriale, costituito da elementi tanto eterogenei quanto complementari.
Il navigato Ernesto Mahieux veste i panni del tassidermista Peppino Profeta, una figura sotto cui le apparenze amichevoli e cordiali si nasconde un animo tormentato ed un legame lavorativo con la camorra. Diventa ben presto una guida lavorativa, e non solo, per Valerio, assumendolo sotto la propria ala e rendendolo parte della propria esistenza.
Valerio Foglia Manzillo è invece l'interprete che si cela dietro al giovane Valerio: modello più che attore, nella pellicola ha un ruolo soprattutto corporale, gestuale, che si lega alle azioni più che ai pensieri. Esordisce in un lavoro cinematografico proprio con questo lungometraggio di Garrone; la scelta non è casuale, perché la volontà del regista è quella di affiancare una figura inesperta e ingenua, sul piano attoriale, a quella di Mahieux. La subalternità delle parti esce rafforzata da questa condizione, creando un livellamento estremamente viscerale e sincero: l'esperienza gioca un ruolo fondamentale nel creare i giusti contrappunti scenici, elevando la figura di Peppino e rendendo ancora più evidente la sua abilità manipolatoria - quando non proprio affabulatoria.
Diverso ancora è il contributo dell'ultimo vertice del triangolo che va costituendosi, ovvero Deborah: interpretata da Elisabetta Rocchetti, subentra in corso d'opera e rompe l'idillio momentaneamente formatosi tra Peppino e Valerio. Pur mancando, anche solo per motivi anagrafici, di un curriculum ampio, mostra all'attivo già importanti partecipazioni con registi di primo livello: Dario Argento, Pupi Avati e Marco Risi, giusto per citare tre autori. Un volto quindi attorialmente più esperto di Valerio Foglia Manzillo, capace di porsi in maniera più frontale e sicura nei confronti di Mahieux: come scritto precedentemente, l'esperienza gioca un ruolo fondamentale per la riuscita dei personaggi e dei ruoli; le peculiari condizioni di partenza dei tre protagonisti diventano l'essenza da cui scaturiscono, quasi naturalmente, i diversi rapporti di forza e prossemici tra i tre.
La regia svolge un ruolo altrettanto importante nel creare barriere, separazioni, incomunicabilità e distanza sul piano visivo, esacerbando anche la differenza di statura tra Valerio e Peppino. Non di rado, difatti, tra i personaggi si creano evidenti fratture dovute da oggetti interposti; o anche triangolazioni scalene, dal momento in cui subentra Deborah. Il dolore e la sofferenza, insomma, diventano una parte viva anche della forma, creando istantanee che inconsciamente conducono lo spettatore verso dolorose risoluzioni.
In maniera sobria ed elegante, Garrone riesce a far comprendere molte istanze della pellicola anche soltanto attraverso la disposizione spaziale dei corpi; motivo per cui, a parer mio, questo lavoro merita di essere visionato più e più volte per poter essere apprezzato a pieno, cogliendo ogni elemento disseminato su schermo nella piena consapevolezza di quelli che saranno gli esiti della storia narrata.
Il film otterrà numerosi riconoscimenti, portando a casa 9 premi tra David, Nastro d'argento, Globo d'oro e Ciak d'oro. Siamo di fronte, in definitiva, al titolo che lancerà definitivamente la carriera di un regista che tutt'ora sa regalare grandi lavori, riconosciuti come tali in Italia e all'estero.
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