Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Tra le storie maledette quella vera di Domenico Semeraro non attendeva altro che di diventare una sceneggiatura poichè soggetto cinematografico - invitante come pochi - lo era già di per se’. Fortunatamente finì in ottime mani attirando l’attenzione dell’allora trentaquattrenne Matteo Garrone, che spostò la vicenda da Roma a Castel Volturno e modificò poco altro oltre ai nomi dei protagonisti, intuendo subito che il malsano magnetismo della storia andava semplicemente lasciato trasudare e non soffocato da sovrastrutture narrative o da una regia prepotente.
Il personaggio reale. Con le sue piccole mani Domenico Semeraro, alto 1 metro e 30 centimetri, era un tassidermista particolarmente abile. Pur rifiutando razionalmente e fermamente qualunque tipo di considerazione inopportuna e discrimatoria, non si può negare che il personaggio di un nano che manipola animali morti per condannarli all'eternità sembra scaturito dalla fantasia di uno scrittore noir più che dalle pagine di cronaca nera. Figlio di consanguinei di umili origini, Semeraro possedeva acume e intraprendenza: diplomatosi in materie tecniche lasciò l’insegnamento per lavorare in proprio come imbalsamatore di piccoli animali. Non estraneo a saltuarie collaborazioni con la malavita, conduceva una vita fondamentalmente solitaria pur cercando occasionalmente la compagnia di giovani di bell’aspetto, che attirava tramite annunci di lavoro oppure incontrandoli nella zona di battuage della stazione Termini di Roma.
Il film. Periferia di Castel Volturno, l’imbalsamatore Peppino Profeta conosce il giovane Valerio, ragazzo attraente e ancora indeciso sul suo futuro, al quale propone di diventare suo assistente di laboratorio. Peppino è di piccola statura ma non ha nulla di effeminato e non disdegna la compagnia femminile, è persona istruita, molto munifica e soprattutto non ha fretta: dissimulando inizialmente l’adorazione che nutre per Valerio, condivide con lui serate cameratesche ma intanto tesse la sua tela, legandolo a doppio filo a se’. Quando Valerio conosce Deborah, Peppino dapprima la accetta ritenendola una distrazione passeggera, ma la relazione tra i due giovani diventa seria e Profeta inizia a temere seriamente di perdere Valerio e di ripiombare così nella sua solitudine. Il giovane è dibattuto tra il forte ascendente che la personalità dell'imbalsamatore esercita su di lui e il futuro che si prospetta con Deborah e quando Peppino disperato gioca la sua ultima carta per riaverlo con se' l'esito sarà drammatico.
La storia, malata di per se', non aveva bisogno di artifici e infatti la regia di Garrone procede quasi contemplativa: non c'è una scena forzata, non un dialogo innaturale, a rendere l'umore cupo della vicenda bastano i campi lunghi sul lungomare uggioso con i palazzoni abusivi del Villaggio Coppola, le riprese notturne ai margini della città su bellissime note jazz, gli interni claustrofobici sotto gli sguardi fissi degli animali impagliati. Non c'è nulla di "bello" nel senso convenzionale del termine (a parte Valerio) eppure la ricerca estetica e formale si sente sempre, solo per citare un paio di scene per tutte: l'inquadratura eccezionale - diventata poi locandina - di Valerio e Peppino che lavorano su un grosso bovino rovesciato e quella di Peppino al lavoro completamente impolverato e con gli occhiali protettivi, che sembra una personaggio di Blade Runner.
Grande merito va riconosciuto a Garrone anche nella direzione degli attori, che si basa su una chiara definizione dell'atmosfera e delle scene ma lascia libertà interpretativa nei dialoghi, ottenendo così un risultato recitativo di studiata spontaneità che colpisce profondamente nella sua assoluta verosimiglianza. Per ovvie ragioni non molti avrebbero potuto calarsi nella parte di Peppino, ma se l’incredibile interpretazione di Ernesto Mahieux ha il carattere di una vera e propria trasfigurazione non è solo per una questione di aderenza fisica al personaggio: attraverso una sorta di non-recitazione di effetto impressionante l'attore riesce ad essere cordiale e subdolo, simpatico e ambiguo, soffocante e umanissimo, una figura noir davvero memorabile. Perfetto nella parte anche il giovane Valerio Foglia Manzillo, che presta la sua spontaneità e la sua bellezza acerba ai primi piani con cui Garrone ce lo mostra attraverso gli occhi adoranti di Peppino.
Pellicola che si distinse per carattere e identità, "L’imbalsamatore" rimane tuttora il mio preferito tra i lavori di Matteo Garrone.
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