Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
insipido, una minestra mal cucinata
La vita accanto, film sceneggiato da sei autorevoli mani e diretto da mano d’autore, è il classico film di cui, a visione avvenuta, pensi: tanto rumore per nulla.
Film greve, di quelli da cui traspare un malcelato narcisismo narrativo, del tipo “Guarda come ti stupisco il pubblico”.
Purtroppo, al contrario, si rivela un mortifero nonché esasperante esercizio retorico, che, come ogni esercizio retorico, perde di vista la vita vera.
Partiamo dall’angioma, focus intorno al quale si muove tutto il resto.
La neonata ne ha uno che le copre tutta la guancia destra. Si tratta di una forma non grave, un rossore che non pregiudica organi interni e cervello, sviluppo cognitivo e fisico, la bambina è vivace, sveglia, da sedicenne diventerà una splendida e bella pianista, insomma c’è di che chiedersi perché la madre la rifiuti e trascorra dieci anni tenendola reclusa al mondo per poi togliersi finalmente di mezzo sparendo nelle acque del Bacchiglione, che scorre sotto le mura patrizie della splendida magione di famiglia.
Probabile che anche questo possa accadere, se la vera malata è la madre, di nervi, e il padre un brav’uomo la cui presenza è inconsistente, labile, fantasmatica; può darsi che gli autori volessero calcare la mano sul gretto perbenismo di provincia che non può accettare un danno all’immagine; tutto può essere, ma bisogna renderlo credibile.
E invece di credibile, e godibile, c’è solo Vicenza, ma non quella di Parise, dove movimentate vicende private e cittadine, ruotanti intorno al "prete bello", Don Gastone Caoduro, alto, giovane, elegante, oggetto di attenzioni e pulsioni mistico-sessuali ammantate di perbenismo tipicamente provinciale, danno vita a quella che Emilio Cecchi definì sul Corriere della Sera “Una vena di angosciosa poesia, un dono verbale agile e impetuoso”.
Qui il capolavoro palladiano, spesso presente in interni ed esterni curati da una fotografia che predilige le ombre, scorre lungo le facciate mute ed eleganti, fitte di archi, frontoni e capitelli, ci introduce al Teatro Olimpico per un concerto per piano disturbato dalla stravagante coppia Macola ( nomen/omen) che, non contenta di arrivare in ritardo ( e già questo è incredibile, nessun teatro classico lo permetterebbe), esce con gran putiferio perché a lei si sono “rotte le acque”, Vicenza è protagonista indiscussa, non cornice.
La storia invece, nonostante il discreto impegno del cast, risulta sfilacciata da un accumulo di sottotesti ognuno dei quali richiederebbe un film a parte.
Si aprono porte che non si chiudono, si mettono in campo squarci di vita sociale lasciati lì a macerare, la sessualità irrisolta della zia pianista trova il modo più banale di risolversi,si mette perfino in campo un drappello di giovani di cui si vorrebbero indagare problematiche ma in realtà emergono solo stereotipi, di quelli che i vecchi amano tanto riproporre come una litania quando parlano tra loro.
Il finale, dopo tanto contorcersi, non trova di meglio che cercare scorciatoie surreali (la macchia che scompare, flop, come se nulla fosse, il fantasma della madre che appare di notte a manifestare alla figlia un amore mai provato, un giro di notte della giovane Rebecca fra le avite stanze per scoprire chissà quali segreti).
Conclusione: insipido, una minestra mal cucinata.
www.paoladigiuseppe.it
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