Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Un film imperfetto ma che riesce a regalare le emozioni tipiche del cinema di Pupi Avati, quasi una summa del suo modo di intendere e fare cinema. Se tutto sembra inquadrarsi in quel "gotico padano" che tanto ha caratterizzato il cinema avatiano, in realtà lo spettaore più attento non faticherà a trovare rimandi alla vena più romantica del regista.
La storia di un'ossessione: questa, volendo praticare una sintesi estrema, è l'essenza dell'ultimo lavoro di Pupi Avati. L'ossessione di un giovane per una visione di pochi secondi, una splendida ausiliaria dell'esercito americano che nella Bologna appena liberata dall'occupazione nazi-fascista appare e scompare nello spazio di un battito di ciglia e resta impressa per sempre nella mente del protagonista, di cui ignoriamo il nome (né il regista lo rivelerà, come se, ai fini della struttura narrativa, ben più importante di un nome che identifichi il personaggio sia piuttosto la sua dedizione a un ricordo, cosa che lo porterà ad incrociare le strade di una follia già conosciuta in età adolescenziale).
Avati torna sulle strade a lui ben note del gotico e lo fa a modo suo, da grande maestro del genere quale è. Ritorna a qualche anno di distanza dal non del tutto apprezzato Il Signor Diavolo, e pure questa volta la sua narrazione lascia degli spazi vuoti che potrebbero esporre il suo lavoro a qualche critica giustificata, eppure l'impressione e che pure queste sospensioni siano volute, una modalità per ritrarre sullo schermo l'angoscia di chi insegue un sogno con ostinazione per precipitare poi nell'incubo.
Ma torniamo alla storia: l'anno dopo l'incontro che ne segnerà l'esistenza, il giovane si reca negli Stati Uniti, e precisamente a Davenport, Iowa, un luogo che chi ama i film di Avati già conosce.
A Davenport infatti si trova la casa del jazzista Bix Beiderbecke, uno dei miti del regista bolognese che acquistò l'edificio insieme al fratello e ne attuò il recupero (oggi è monumento nazionale). Avati la utilizzò come ambientazione de Il nascondiglio, opera poco fortunata ma assolutamente affascinante che a parere di chi scrive meriterebbe di essere rivalutata. Sarà una coincidenza forse, ma anche in quel caso la protagonista (la bravissima Laura Morante) era afflitta da problemi psichiatrici e anche in quel caso non ne venne rivelato il nome al pubblico.
Torniamo dunque a questo Orto Americano: A Davenport il nostro anonimo protagonista entra in contatto con la madre di Barbara (questo il nome dell'affascinante visione) mai tornata dall'Italia, dispersa tra le nebbie della pianura ferrarese. E la storia, fino a questo punto rimasta nei binari del thriller, vira decisamente verso l'horror : lamenti notturni attirano il giovane nel giardino abbandonato della casa vicino alla sua e lì trova un vaso di vetro dal contenuto inquietante (il liquido lattiginoso non lascia trasparire nulla eppure la sensazione di disagio è forte e si intuisce di lì a poco il macabro contenuto) e recante come etichetta una citazione misteriosa, decifrata con l'aiuto di un coltissimo prelato, che riporta ai versi del poeta Bacchilide e ai grandi autori classici (particolare molto importante, come scopriremo nel finale).
La volontà del giovane di far chiarezza sulla storia di Barbara si scontra con la sospetta intransigenza della sorella della ragazza scomparsa, che grazie alla posizione sociale del marito otterrà l'espulsione dal paese del protagonista con conseguente ritorno in Italia.
Ma la ricerca non termina, semplicemente cambia il teatro della stessa; adesso la bassa padana, dove la vicenda trova la sua conclusione, amarissima, ad un certo punto intuibile ammettiamolo pure, ma magistralmente sfumata in un finale ambiguo come lo sguardo del villain che ha incrociato la strada del nostro protagonista senza nome.
Girato in un suggestivo bianco e nero, richiamo immediato alle atmosfere dei noir e degli horror di un cinema di epoche lontane (probabilmente un omaggio di Avati alle visioni che ne formarono l'amore per la settima arte), questo è un film imperfetto, lo abbiamo già scritto, ma che restituisce per intero la poetica del regista bolognese, il suo amore per un certo modo di fare cinema, il ritorno a quel gotico padano che rappresenta probabilmente la sua cifra stilistica più caratterizzante, anche se sarebbe ingeneroso ridurre la sua carriera solo ai titoli in cui ha espresso il suo lato oscuro.
Come del resto sarebbe sbagliato rinchiudere l'anima de L'Orto Americano nella stretta definizione “film horror”, perché questo è anche (anzi, soprattutto) un film d'amore, un amore idealizzato per una creatura sognata, e solo la vena di follia che permea il protagonista (un bravissimo Filippo Scotti) è ciò che gli consente di non abbandonare mai la sua ricerca della verità, a costo di finire rinchiuso in un ospedale psichiatrico, anche se alla fine la verità può essere crudele e disturbante.
Innegabilmente l'accostamento con certe atmosfere de Il Signor Diavolo (girato appena cinque anni prima) può risultare naturale, tuttavia qui il regista si è mosso su coordinate differenti, quali a volerci regalare una summa della sua idea di cinema, un'idea e una poetica che rendono quest'opera affascinante e anche sfuggente, come il ricordo di una donna bellissima incontrata solo per pochi attimi.
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