Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Il protagonista di questo film non ha un nome. Me ne rendo conto solo alla fine della visione, quando scannerizzo dentro la mia testa i numerosi volti per ricordarmi del loro ruolo, di ognuno mi rimane in memoria (stranamente) il nome, tranne di lui, il motivo è che lui non ha un nome.
Questo è un piccolo trucco magico adottato dal grande maestro Pupi Avati, per farci immergere in una storia “fastidiosa”, utilizzando metodi narrativi molto sottili.
L'orto americano (2024): Filippo Scotti
Bologna, 1945, l’Italia è appena uscita da una guerra che l’ha ridotta a pezzi. Gli alleati americani sono i salvatori della Patria e sono i veri padroni delle città liberate. In un piccolo negozio di barbiere il nostro protagonista si fa tagliare i capelli. E’ la prima volta che non glieli taglia la madre, intuiamo essere morta. Entra nella bottega una giovane ausiliare americana per chiedere un’informazione. Il giovane, parlando un perfetto inglese scolastico, riesce a risponderle senza difficoltà. Da quel momento il cuore e l’anima del ragazzo è prigioniero di un amore a prima vista.
L’anno dopo il nostro protagonista si trova negli Stati Uniti, per poter scrivere un libro e sperare che l’ispirazione americana lo aiuti a pubblicarlo. La sua vicina di casa è una vecchia disabile, affranta per la scomparsa in Italia della figlia minore Barbara. Il ragazzo riconosce in Barbara la ragazza di cui si è innamorato a Bologna.
Da questo momento inizia la ricerca di Barbara, e non sarà una cosa né semplice né normale.
Il nostro protagonista si presenta da solo, mostrandosi da subito fragile e molto sensibile. Viaggia accompagnato dalle fotografie dei suoi morti, che conserva in una cartellina. Con loro parla e si confida, per questo motivo (scopriamo) è stato anche ricoverato per alcuni anni in un ospedale psichiatrico.
I morti gli parlano, lo cercano e lo indirizzano verso delle tracce utili per scoprire qualcosa sulla scomparsa di Barbara. Durante la notte, infatti, sente dei lamenti provenire dall’orto della sua vicina, e proprio lì, riesce a dissotterrare un misterioso vaso di vetro, che sembra contenere i macabri resti di una parte anatomica femminile.
L'orto americano (2024): scena
Mi fermo nel raccontare la sinossi. Mi fermo perché lo svolgimento della storia implica molti personaggi, americani e italiani, alcuni cercano, altri celano fatti, altri ancora (forse) non esistono se non nella mente disturbata del nostro protagonista.
Pupi Avati prima ancora di dirigere, scrive il libro da cui è tratto il film, di nuovo torna ad un genere a lui caro, quello dell’horror padano, genere che lui stesso inventò molti anni fa con “La casa dalle finestre che ridono”. Ma Pupi Avati ci ha anche abituato alle trasferte americane, dove ci mostra sempre un paesaggio onirico, quasi irreale, per poi farci tornare nelle meno rassicuranti province romagnole, in cui (in questa storia almeno) si aggira un pericoloso assassino di donne.
Se devo essere sincera, in alcune scene, ho avuto veramente paura. Anzi, utilizzo un termine in disuso: mi sono suggestionata. Avati è bravissimo a fare leva su atmosfere che richiamano vecchie leggende di paura, le cosiddette favole nere. Lui stesso dice che per scrivere le sue storie, si ispira a quello che gli veniva raccontato dalle nonne durante le veglie prima di andare a letto. Racconti che lo hanno tenuto sveglio per notti intere e che per fortuna sono rimasti a fermentare nella sua mente per poi arrivare a noi spettatori negli anni.
Il bello del cinema di Avati è che, ancora oggi, dopo tanti anni, continua a lavorare con i “suoi” attori di sempre, e si circonda di amici e parenti per i ruoli fondamentali. A scrivere la sceneggiatura insieme a lui è il figlio Tommaso Avati.
Uno dei produttori è il fratello minore Antonio Avati.
Direttore della bellissima fotografia è il “veterano” Cesare Bastelli, che lavora con Pupi Avati dal 1992, e che ha fatto con lui più di 10 film. Mi piace citarlo come direttore della fotografia di altri 2 film horror di Avati che ho particolarmente ammirato: “L’arcano incantatore” -1996- e “Il signor Diavolo” -2019.
Per gli effetti speciali c’è il maestro Sergio Stivaletti, che è una garanzia per le teste mozzate e altre parti anatomiche amputate, devo dire che in questo film ha dato il meglio di sé.
L'orto americano (2024): Filippo Scotti
Ci sono molti degli attori che hanno lavorato con Avati negli anni. Massimo Bonetti; la bravissima Rita Tushigham (che qui possiamo apprezzare nel vederla recitare nella sua madrelingua); Nicola Nocella, che per me rimane sempre “Il figlio più piccolo”; Chiara Caselli, che pare dare il meglio di sé con i film di Avati; un bravissimo Roberto De Francesco, in un ruolo ambiguo e che nel finale lascia una porta aperta a più conclusioni; un cameo per Andrea Roncato e per un irriconoscibile Cesare Cremonini.
Infine un plauso al giovane Filippo Scotti che presta il volto al protagonista senza nome, un personaggio dalle mille sfaccettature, che gioca sul reale e il non reale, in maniera poetica e autoriale.
Molto bello e che meriterebbe una seconda visione a breve distanza dalla prima.
L'orto americano (2024): Pupi Avati
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