Regia di Youssef Chahine, Amos Gitai, Alejandro González Iñárritu, Shohei Imamura, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn, Danis Tanovic vedi scheda film
11 episodi, di 11 minuti, 9 secondi e 1 fotogramma. Operazione più maniacale e programmatica non si può immaginare. Ma non è né maniacale né programmatica, è la riflessione unitaria ma discontinua di un disastro, dei disastri, della tragedia umana. Non tutti gli episodi sono riusciti, questo è vero (particolarmente pedanti Tanovic, Chahine e Loach), ma stordiscono per profondità lo splendido episodio di Inarritu, il lirismo di Penn e la profondità di Imamura.
In Inarritu ci inabissiamo negli inferi dei media, della spettacolarizzazione, delle religioni, e per dieci minuti (o quasi) stiamo nel buio apocalittico fino all'esplosione finale: un Inarritu inaspettato, solitamente sporco e violento ma stavolta straordinariamente mistico.
In Penn si rischia grosso, perché non sembra che la storia sia attinente al resto, fino al twist finale in cui appare al sole, una vita felice a quale costo? Ma siamo lontani dalla tragedia, a dimostrazione di quanto sia vario il mondo senza la necessità della lontananza.
In Imamura l'uomo perde sé stesso, ammette i propri crimini, i propri peccati, le proprie carenze di umanità, e lentamente si trasforma in un rapace serpente.
I sensi vengono scombussolati, mentre veniamo a conoscenza di infinite altre realtà, attraverso infiniti maestri. Non è mai assecondato un facile spettacolarismo, né è assecondato il terrorismo americano post-11 settembre; è invece ricercata la poesia della vita nel mondo (morto e) disperato dell'odierno. Ce lo ricorda Lelouch, con il suo viaggio nella perdita dei "sensi", ce lo ricorda Gitai, in un professionale piano sequenza, ce lo ricordano in molti in questo diseguale ma grandioso film a episodi.
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